Gli effetti terapeutici della Meditazione
Dis-Abilità Sportiva
Nei blog professionali ci sono articoli scritti per divulgare conoscenze, affinché le persone che non sono del settore possano sensibilizzarsi verso alcune tematiche o trarre spunti per la loro vita di tutti i giorni, e poi ci sono articoli scritti per esprimere un contenuto umano, diretto, vero e utile, articoli che servono per dare spazio alle differenze individuali, ai vissuti personali che possono fungere da stimolo di riflessione per alcuni e stimolo all’azione per altri.
Sono molto felice di condividere le parole di Luca, che ci racconta come nella vita si possa affrontare tutto, anche partendo da uno “svantaggio” e subito dopo: recuperare, raggiungere, tenere il passo e, magari, superare. Non aggiungo altro per non portar via spazio su carta al suo pensiero che in me ha lasciato un segno e spero lo possa lasciare anche in chi legge.
“Ho iniziato la mia attività sportiva con alcuni interrogativi nel mio cuore inconsapevole che le domande vere erano: “Potrò farcela? È proprio vero che lo sport è per tutti?”
Vorrei raccontare il mio rapporto da persona disabile con lo sport. Quando un portatore di handicap espone le proprie esperienze, si tende a pensare che quello che racconta sia un po’ mieloso soprattutto ciò che riguarda le barriere, i limiti, la forza di volontà, la voglia di arrivare, quindi ciò che l’handicap toglie per essere una persona “normale”. Innanzitutto, devo ricordare che lo sport è sempre un gioco e come tale oltre alla competitività deve essere divertimento e passione. Come disabile però la componente del divertimento libera la mente e ti permette di avere pensieri positivi e quindi di viverlo in modo più leggero.
Quando si ha amore e passione per lo sport ci si immerge dando tutto quello che si può per crescere, migliorarsi e relazionarsi, senza contare i sacrifici, il tempo e a volte le sofferenze. Si dice che si possa vivere per lo sport e come nell’innamoramento ci sia una relazione nel dare e nell’avere. Posso dire che io dallo sport ho imparato molto, ho ricevuto tanto, ma soprattutto mi sono lasciato inondare dalla sua onestà, tanto da farmi capire i limiti del mio corpo e nella piena libertà mi ha aperto la strada a molte opportunità positive.
Chi si ritrova in condizioni di disabilità tende a svalutare il proprio corpo per i limiti che ha in relazione al mondo che ci circonda. La libertà che mi è stata restituita attraverso lo sport è stata impagabile permettendomi di accettare il mio corpo nella sua globalità, trovando una nuova via d’espressione nel rapporto con gli altri condividendo passioni e obbiettivi senza essere giudicato per quello che non potevo fare ma valorizzando i progressi ottenuti. Io pratico la corsa da quando ero molto piccolo, spronato dai miei fratelli che vedevano in me la tendenza all’isolamento e alla scarsa socializzazione. Ricordo ancora la prima volta che sono sceso in pista lo sguardo incredulo dei bambini che mi circondavano e bisbigliavano alle mie spalle: “Cosa ci fa qui? Guardate come cammina! Riuscirà a correre?”.
Se alle prime due domande potevo dare una risposta, all’ultima domanda la risposta è venuta attraverso il mettermi alla prova e sorpresa delle sorprese: la mia precarietà nel camminare si è trasformata in qualcosa di nuovo e bellissimo e grazie alla velocità percepivo il mio corpo in modo diverso.
Era il mio primo contatto con lo sport da disabile. Con la possibilità poi di uscire di casa e confrontarsi con persone che ti permettevano di non sentirti solo e di far parte di qualcosa che trascende i tuoi limiti si innescava in me uno stato d’euforia e divertimento e ti restituiva un nuovo rapporto con il tuo corpo dove il limite fisico acquistava un peso diverso diventando “valore” che si esprimeva in una diversa volontà di affrontare il mondo.
Lo sport è questo per me, cioè la consapevolezza di potercela fare, nonostante tutto!”
“Che io possa vincere, ma se non riuscissi, che io possa tentare con tutte le mie forze”
(Eunice Kennedy Shriver, fondatrice delle Special Olympics)
Silvia e Luca
Di cosa si occupa la psicologia ospedaliera? E’ possibile portarla fuori dagli ospedali?
L’evoluzione della medicina e della psicologia, hanno portato una sempre maggiore attenzione alla componente soggettiva del paziente, creando le condizioni per una visione più ampia dell’assistenza alla persona malata. Si abbandona la concezione del malato come “oggetto” da curare, a favore di un’ottica globale e multi-disciplinare, in cui la relazione diventa il nodo centrale della cura.
Le principali problematiche di cui si occupa la Psicologia Ospedaliera (detta anche Psicologia Medica e inclusa nel più ampio range della Psicologia della salute) riguardano:
– il disagio psicologico che, in misura diversa, accompagna ogni esperienza di malattia. La comparsa di una malattia, improvvisamente o progressivamente, rappresenta la rottura di un equilibrio, una minaccia che, a seconda del tipo e della gravità, produce modificazioni nella vita personale, familiare, sociale e lavorativa. Alcune patologie modificano radicalmente la propria vita e quella dei familiari, talvolta causano importanti capovolgimenti economici; altre volte sono vissute come vere e proprie “condanne” definitive. In altri termini, quando una persona si ammala, si ammala nella sua totalità.
– la sofferenza emotiva di un’ampia fascia di malati affetti da patologie spesso gravi, croniche e/o a prognosi infausta (cancro, dialisi, sclerosi multipla, sclerosi laterale amiotrofica, ustioni gravi, politraumi, diabete, ecc.) i quali in aggiunta ai problemi fisici, devono confrontarsi con reazioni emotive molto intense e con sequele psicologiche complesse che rendono ancora più difficile la loro esperienza di malattia.
– gli effetti che tale sofferenza emotiva ha sul paziente, i suoi familiari e sugli operatori;
– l’assistenza psicologica ai pazienti e ai loro familiari, erogata nell’ambito dei protocolli diagnostici e terapeutici specialistici, inerenti vari contesti assistenziali come i trapianti d’organo, la riabilitazione motoria, cardiologica, respiratoria, neuropsicologica, la chirurgia speciale nelle gravi obesità, la patologia neonatale, e rianimazione pediatrica, la maternità assistita, ecc.
La Psicologia Ospedaliera, quindi, si occupa dei disturbi, psicologici, neuropsicologici, affettivi dei malati degenti o in cura ambulatoriale e delle difficoltà emotive e relazionali delle persone che a causa di una patologia quasi sempre organica, acuta o cronica, medica e/o chirurgica afferiscono all’Ospedale Generale.
Le reazioni psicologiche, emotive e relazionali conseguenti alle patologie in atto, raramente sono di natura psichiatrica; queste reazioni, benché intense, vanno interpretate nell’ottica della dialettica emotiva e psicologica interiore propria delle persone senza precedenti problematiche psichiche, anche quando sono dure, faticose e complesse e necessitano di un intervento psicologico specifico e/o psicofarmacologico.
Altre problematiche di cui si occupa la Psicologia ospedaliera sono:
– il supporto e la formazione psicologica degli operatori, specie quelli delle aree “critiche;
– il miglioramento della qualità di vita dei malati;
– l'”umanizzazione” dell’assistenza;
– la prevenzione e promozione della salute.
In sintesi, le aree direttamente interessate dalla Psicologia Ospedaliera sono tre, cioè quella della sofferenza psichica del paziente e dei suoi familiari, quella della formazione degli operatori e quella della organizzazione del lavoro.
Alcuni aspetti possono esser portati dall’istituzione pubblica al privato? Ovviamente ci sono molte criticità sia da un punto di vista della sostenibilità economica dei percorsi, sia della minor possibilità di interagire con i medici curanti, ma non è impossibile occuparsi di psicologia della salute al di fuori dagli ospedali.
Dr.ssa Silvia Colizzi
Binge Drinking_Quando l’alcool si sostituisce al cibo.
Il “Binge Drinking” è l’abbuffata alcolica con la quale un soggetto ingerisce velocemente una grande quantità di bevande alcoliche fuori dai pasti, fino a sentire l’effetto desiderato: euforia, maggior sicurezza, stordimento ed appiattimento di ogni pensiero e preoccupazione. È un fenomeno diverso dall’alcool dipendenza intesa in senso classico. Può sicuramente tramutarsi in dipendenza, ma può esser un fenomeno ricreazionale e del fine settimana per un lungo periodo di tempo. Non per questo è esente da gravi danni fisici e rischi sociali, dovuti al discontrollo degli impulsi causato dall’euforia alcoolica.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel “Rapporto Globale su alcol e salute 2014″ dichiara che i “binge drinkers” rappresentano complessivamente il 6,3% della popolazione adolescenziale, con un rapporto 5:1 tra maschi e femmine. Il binge drinking è un fenomeno consolidato tra i maschi di 18-24 anni, mentre una riduzione si registra tra le donne di qualsiasi età e tra gli uomini nella fascia d’età over 45.
Quali sono, dunque, le conseguenze fisiche sul cervello nei soggetti che praticano “binge drinking”in adolescenza e prima età adulta?
Il cervello subisce significativi cambiamenti strutturali e funzionali tra infanzia e l’adolescenza, con la maturazione che inizia nella prima età adulta (Pfefferbaum et al., 1994). Tratti di fibre di sostanza bianca continuano a svilupparsi fino ai 24-25 anni per consentire la comunicazione più efficiente e rapida tra varie regioni cerebrali. Quest’ultime sono specialmente aree del cervello associate a funzioni cognitive di ordine superiore, quali le regioni frontali e pre-frontali che regolano l’attenzione, il controllo e l’inibizione degli impulsi, nonché la pianificazione delle azioni e le zone subcorticali correlate alle emozioni e il ricordo emotivo degli eventi, specialmente l’ippocampo (Sowell et al, 1999, 2004; Shaw et al., 2008; Giedd e Rapoport, 2010; Lebel et al, 2012, López-Caneda et al, 2017).
Di fronte ad uno sviluppo cerebrale che non si è ancora concluso, possiamo immaginare come grandi dosi di etanolo possano compromettere il consolidamento di importanti connessioni tra gli impulsi e la capacità di controllarli. Infatti, gli esperimenti sugli animali hanno dimostrato che grandi quantità di alcool sono in grado di produrre neurodegenerazione necrotica nelle aree del cervello più strettamente legate l’ippocampo e una diminuita attività dei neuroni nella zona prefrontale in base alla quantità di etanolo iniettata (Journal of Neuroscience, Tu, Y et al. 2007).
Ciò avviene perché il rilascio di glutammato nell’ippocampo (neurotrasmettitore eccitatorio, che assieme alla dopamina causa la fase di esaltazione e euforia) è seguita dal rilascio di neurotrasmissione GABA-ergica (una neurotrasmissione inibitoria-depressiva per il Sistema Nervoso Centrale). Più aumenta l’attività inibitoria delle funzioni nervose, più si riducono le capacità di memoria a breve termine e apprendimento visuo-spaziale con conseguente disorientamento (Argenti et al., 2003).
Un recentissimo studio comparativo, condotto da Adela Rendón e collaboratori nel 2015, tra un gruppo di ragazzi messicani che praticavano “binge drinking” e ragazzi non bevitori o bevitori moderati, ha mostrato che i binge drinkers presentano danni ossidativi doppi alle membrane cellulari rispetto all’altro gruppo. Un ultimo dato riguarda l’analisi del materiale genetico presente nelle cellule linfocitarie del sangue dei soggetti che praticavano binge drinking, i quali presentano cellule danneggiate in misura 5:1, se confrontati ai bevitori moderati. Bere in maniera compulsiva per lunghi periodi di tempo, può danneggiare irreversibilmente il DNA, comportando danni alle cellule del fegato, del cervello, dello stomaco e dell’intestino, come già osservato negli alcolisti di lunga data. Inoltre, diversi studi indicano come
Considerando le gravi conseguenze bio-psico-sociali del Binge Drinking, e l’elevata sensibilità all’alcool della popolazione giovanile, non possiamo non augurarci che queste straordinarie ricerche portino a nuove strategie terapeutiche per coloro che abusano di alcool e un approccio sempre più mirato e in linea con le nuove tendenze per le famiglie di adolescenti e giovani adulti con questo grave disturbo comportamentale.
Alimentazione incontrollata. Approccio multidisciplinare
Il Disturbo da Alimentazione Incontrollata, definito comunemente con la sigla BED (dall’inglese Binge Eating Disorder) è un Disturbo del Comportamento Alimentare (DCA), riconosciuto come disturbo a sé stante dal DSM-5 (Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali, 2013), data l’importanza e la diffusione di questa forma di disagio.
La persona che soffre di BED ha progressivamente sviluppato un rapporto disfunzionale con il cibo, il quale diventa il contenitore di disagi esistenziali e problemi irrisolti che non riescono ad esser veicolati attraverso vie più funzionali e utili per il superamento degli stessi. Quindi, questi pazienti hanno come istinto principale quello dell’«abbuffata», cioè l’atto di “divorare” grandi quantità di cibo in un breve periodo di tempo, senza però ricorrere alle condotte eliminatorie dei soggetti bulimici. Il cibo che «inonda e riempie» non sarà rigettato con il vomito autoindotto, espulso con abuso di lassativi o bruciato con eccessiva ed estenuante attività fisica: per loro il cibo introiettato rimarrà nel corpo a riempire e soddisfare quel bisogno che ha spinto la persona ad introdurlo. L’abbuffata è spesso seguita da sentimenti di colpa, vergona e disagio marcato. Tra un’abbuffata e l’altra, le persone che soffrono di BED soffriranno senza agire e sarà molto difficile per loro anche ridurre il cibo per controllare l’aumento di peso. L’esito di questo comportamento sarà, nel medio-lungo periodo, una condizione di obesità.
Molto spesso alla base dell’obesità ci sono altre problematiche: predisposizione genetica, alterato sistema di controllo dell’assimilazione e del metabolismo di certi nutrienti, disfunzioni ai centri del controllo della fame a livello ipotalamico (per le quali si verifica la necessità di un’ipernutrizione). Tuttavia, nei casi di BED la causa è multifattoriale e principalmente psicologica, pertanto il soggetto potrà emergere dalla sua condizione solo se aiutato nell’individuare le cause del disagio, nonché attraverso lo sviluppo di nuove consapevoli abitudini legate all’alimentazione e allo stile di vita. Non basterà il supporto di un medico nutrizionista, perché risulta molto difficile per le persone affette da Disturbi Alimentari affidarsi a ordini, accettare consistenti riduzioni o privazioni. La rappresentazione del cibo per loro non è più solo legata al gusto, al piacere, o nel migliore dei casi all’apporto nutritivo: il cibo è un’ossessione, un’idea fissa o ricorrente, un vero e proprio regista capace di dirigere le loro giornate. L’abbuffata, inoltre, può esser innescata da un’emozione negativa nata da una critica, un rifiuto, una delusione; quindi immaginiamo come un rapporto medico-paziente basato solo sulla “prescrizione alimentare” non possa funzionare. È necessario un approccio multidisciplinare.
Sul territorio italiano sono presenti i Centri DCA, nei quali equipe multidisciplinari formate da medici-nutrizionisti, psicologi esperti in DCA, psicologi psicoterapeuti, dietisti, infermieri e fisioterapisti, seguono i pazienti in regime di Day Hospital, Riabilitazione Residenziale o vero e proprio ricovero ospedaliero (a secondo della condizione psico-fisica del paziente). A livello di Psicoterapia, il trattamento di eccellenza è la Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT).
Talvolta può accadere che, nonostante un valido approccio multidisciplinare non invasivo, i pazienti con BED non riescano a raggiungere risultati in linea con le loro aspettative e decidano di affacciarsi al mondo della “chirurgia bariatrica”. Questo approccio chirurgico è nato nel 1954, quando fu realizzato il primo bypass digiuno-ileale della storia. Oggi esistono tecniche restrittive, con le quali si ottiene una riduzione della capienza dello stomaco e tecniche che vanno a modificare il grado di assorbimento, attraverso bypass intestinali. Entrambi i metodi comportano una significativa riduzione del peso del paziente, tuttavia non sono interventi da prendere “alla leggera”. La chirurgia bariatrica in un paziente obeso che soffre di un DCA non sempre è possibile. Nei casi di Bulimia Nervosa, ad esempio, non può essere effettuato. Nei pazienti con BED, invece, viene ritenuto possibile previa valutazione preoperatoria di tipo multidisciplinare mirata a valutare non solo le condizioni di salute generali, ma anche le aspettative verso i risultati ottenibili con l’intervento, il grado di disagio psicologico, la sua aderenza ad un programma psicoterapico e il margine di miglioramento del disagio stesso.
Pertanto, nei pazienti con disturbo BED è indispensabile proporre programmi terapeutici pre e post-operatori per ammetterli alla chirurgia bariatrica, affinché uno stile alimentare disturbato non perduri dopo l’intervento chirurgico, condizionandone l’esito negativamente.
Processi di crescita dell’autostima
Dalla televisione, dai giornali e dalla rete arrivano continuamente consigli per dimagrire, raggiungere un obiettivo di salute fisica e, talvolta, consigli per affrontare lo stress, le ansie, migliorare l’autostima. Tutto questo aumento della comunicazione inerente alla promozione della salute ha sicuramente sensibilizzato il pubblico nello stare più attento a quello che mangia (o se continua a mangiare come prima per lo meno è più consapevole che dovrebbe apportare qualche cambiamento), più attento all’importanza di uno stile di vita attivo e alle conseguenze della sedentarietà e, infine, più attento a come affronta i fattori stressanti o i conflitti quotidiani, cercando di riflettere di più prima di agire o migliorare la propria assertività (cioè il sapersi opporre o dire la propria opinione quando non siamo d’accordo con qualcosa che sta accadendo).
Tutto ciò va benissimo. Solo che in tutte queste informazioni c’è una pecca: non sono perfette per tutti. Ognuno ha la propria struttura fisica, la propria morfologia che ci è stata data dalla genetica e modellata dai primi 20/30 anni di vita nei quali il corpo ha un grande potenziale metabolico e risponde molto più velocemente alle stimolazioni meccaniche, attraverso il corretto esercizio fisico, e chimiche (attraverso l’introduzione di alimenti ben scelti, dosati ed abbinati). Ognuno ha la sua struttura di personalità, anch’essa modulata dal temperamento che ha basi genetiche e biologiche e dai tratti del carattere, che si sono costruiti sulla base delle relazioni affettive, delle esperienze di vita accumulate e delle risposte ottenute dall’ambiente.
Quindi i punti di partenza per migliorare la propria autostima sono: la consapevolezza di essere unico, riconoscere i propri punti di forza, osservare la nostra personalità “come se fosse un quadro”, disegnato dalle nostre mani e talmente ricco di forme e colori da esser difficilmente decifrabile, ma sicuramente non ripetibile, nemmeno da noi stessi, perché ogni esperienza fatta in diversi momenti della nostra vita può apparire diversa e così ogni segno sulla tela è unico e non va cancellato. Il quadrò ha spazi migliorabili? Ha spazi troppo bui? Ha spazi vuoti? Possiamo certamente migliorarlo, ma non con consigli generalisti. La stessa cosa vale per la forma fisica. Proviamo ad immaginare la forma fisica come un’opera musicale stavolta, essa come una composizione, dunque, muta nel tempo. Mutare è naturale, il cambiamento è segno che non ci siamo fossilizzati in un momento passato. Un corpo “immobile” è un corpo che ossessivamente insegue sé stesso, la mente sarà tutta presa nel tenere a bada ogni cambiamento, proprio come se il corpo fosse una statua e non un insieme di cellule che nascono e muoiono continuamente e quindi, si modificano e ci ricostruiscono ogni giorno. Il corpo come una composizione musicale, invece, ha momenti lenti, gravi, faticosi, momenti veloci, acuti, incalzanti. Prima lo accettiamo prima potremo cambiare serenamente il nostro stile di vita, non come un dogma derivato dai consigli ma come un bisogno. Il nostro metabolismo infatti può esser aiutato, quindi se noi ci conosciamo e ci accettiamo fisicamente, per come siamo oggi e come siamo stati in passato, possiamo iniziare a dare i giusti stimoli al nostro corpo per innalzare il metabolismo, sentire un sano appetito e non una fame nervosa, godere dei piaceri della vita senza sensi di colpa perché sappiamo che non sarà uno di questi a far cadere tutti i nostri “sforzi”. In realtà scrivere una composizione musicale è un lavoro complesso, fatto di abbinamenti, scelta di tempi, di pause… quindi non si può dire che non ci sia dietro un lavoro, tuttavia si può iniziare a provare piacere quando il benessere, che ci viene restituito dall’impegno quotidiano, supera la fatica dello sforzo che sostiene l’impegno del cambiamento.
Una corsa, una camminata o esercizi più mirati possono inizialmente sembrare una fatica, ma nel tempo possono diventare quasi un bisogno, un mezzo per star meglio, un piacere. Questo vale anche per la bella sensazione che si può provare nel cucinare un piatto sano, gustoso, colorato. Sono tutti simboli dell’amore che proviamo verso noi stessi e verso le persone che ci amano, perché imparando a condurre mente e corpo come opere artistiche, dove emozioni e ragione non sono mai disgiunte, faremo anche il regalo alle persone che ci stanno attorno di aver accanto una persona sa vicariare forza ed energia, un “modello” da prendere come esempio.
L’autostima non sale con lo sforzo del pensiero, ma tramite l’armonia dei nostri comportamenti e in base al nostro sguardo sul mondo, due elementi che cambiano naturalmente se sappiamo prenderci cura di noi.
I professionisti della salute e del benessere dovrebbero riuscire a condurre clienti e pazienti verso questa armonia. Chiedere aiuto non è un segno di debolezza ma una cura in più verso la nostra persona.
Dr.ssa Silvia Colizzi
Uno sguardo all’interno delle tematiche della psicologia giuridica e forense.
PSICOLOGIA GIURIDICA.
Ne ho già parlato tanto nel post precedente “Il range d’azione della psicologia giuridica” (vedi articolo). Sintetizzando posso dire che essa ha il peculiare obiettivo di descrivere il profilo psicologico risultante dagli aspetti intellettivi, personologici ed attitudinali del soggetto su cui viene effettuata una perizia, in rapporto alla sua posizione giuridica (in rapporto al ruolo rivestito nella famiglia, nella scuola, nel mondo del lavoro e delle professioni e nella società). E’ chiamata principalmente a descrivere la storia personale (profilo psicologico) delle persone coinvolte in procedimenti giudiziari, al fine di indicarne i dati comportamentali e sottoporli al vaglio dell’autorità giudiziaria incaricata del processo civile o penale. Ha un ulteriore risvolto, quello della mediazione/conciliazione che è utile per ridurre i conflitti, permettere negoziazioni prima dell’inizio del vero procedimento legale. Le risvolti professionali, praticabili da uno Psicologo, con aggiuntiva e adeguata formazione, sono quella del Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU), Consulente Tecnico di Parte (CTP), Mediatore Familiare e Mediatore Civile.
La laurea in Psicologia non è l’unica laurea che permette la formazione specialistico-tecnica necessaria per intraprendere questi ruoli professionali, ma a mio avviso conoscere a fondo gli aspetti psicologici è fondamentale, specialmente nei casi dove sono in gioco soggetti che non hanno la capacità di esprimere e far valere i propri diritti e le proprie volontà, ad esempio bambini, anziani o un coniuge che soccombe ad una crisi coniugale divenendo il soggetto debole della coppia…
PSICOLOGIA FORENSE
E’ un’area specialistica della Psicologia Giuridica, riguarda l’osservazione e la descrizione psicologica dei “soggetti coinvolti”, durante l’espletamento del dibattimento, lo psicologo può essere interpellato per valutare:
-se una persona possiede un livello intellettivo e una salute mentale sufficienti per poter testimoniare;
-se l’atto criminale che ha commesso può essere conseguenza di una psicopatologia, e/o di uno stato di temporanea o permanente incapacità di intendere e di volere (quest’ultima in Italia viene valutata maggiormente dagli psichiatri);
-l’idoneità di un detenuto allo svolgimento di determinate attività lavorative in carcere o nell’ambito delle pene alternative;
-la validità o meno di una testimonianza (capacità di testimoniare); in nessun caso, tuttavia, potrà esprimersi sull’attendibilità della testimonianza di un minore o di chiunque altro, essendo un compito di esclusiva pertinenza dell’autorità giudiziaria non derogabile al perito/consulente.
Anche in questa sezione lo psicologo agisce in qualità di perito (CTU), tuttavia l’indagine è volta a casistiche differenti (settore penitenziario, penale, penale minorile…) ed è strettamente richiesta l’abilitazione alla professione di Psicologo. Limitrofe competenze sono affidate agli Psichiatri.
Psicologia Giuridica e Forense sono settori l’uno inglobato nell’altro, ma se nel primo settore le applicazioni si sviluppano in un’area di confine tra psicologia, sociologia e diritto, nel secondo l’accezione è prettamente psicologica. Conoscere l’ambito legale è necessario per sopravvivere, aver confidenza con un determinato gergo è necessario per comunicare con gli altri professionisti che hanno una formazione legale.
Lo psicologo clinico può svolgere perizie nel ramo forense con apposita formazione (master) post lauream e inserimento negli appositi registri provinciali con titolo di CTU (Consulente Tecnico d’Ufficio).
I rami non si escludono, ma per orientarsi verso tutte queste mansioni occorre sicuramente una formazione più lunga e molta molta pratica.
CRIMINOLOGIA
Nello specifico è la scienza che studia gli autori e le vittime dei reati, i tipi di condotta criminale (e la conseguente reazione sociale) e le forme possibili di controllo e prevenzione.
L’oggetto fondamentale di studio è il reato, la cui definizione è sociale e normativa. Si rifà ad un settore poco nel quale la psicologia è poco sviluppata in Italia: il settore investigativo.
Serie TV americane e l’aumenta visibilità della cronaca nera tramite i media tradizionali e i new media, nonché i dibattiti televisivi che si sviluppano attorno a questi temi, hanno aumentato l’interesse negli studenti di psicologia per questo settore. Si deve sicuramente tener conto dei limitati sbocchi lavorativi e della difficoltà di aver una sostanziale mole di lavoro limitandosi al settore giuridico o forense, ad eccezione di rari casi di professionisti che collaborano attivamente con studi legali.
A cura di Silvia Colizzi (Psicologa Clinica esperta in Neuropsicologia e attualmente in via di perfezionamento in Psicologia Giuridica-forense)
Il range d’azione della Psicologia Giuridica e della Mediazione Familiare
Il confronto disciplinare fra psicologia e diritto è interessante, sia sul piano teorico che sul piano pratico e applicativo.
La psicologia giuridica si occupa dei problemi che possono sorgere nei rapporti tra gli individui, i gruppi, le istituzioni da un lato e la legge dall’altro. Cioè problemi che riguardano la convivenza civile nelle sue varie declinazioni, pubbliche o private. La legge infatti è il fondamento della convivenza umana ed ha il compito di definire delle regole che permettano di tutelare gli interessi individuali e collettivi quando entrano in conflitto tra di loro.
La psicologia può contribuire alla definizione delle necessità umane e dei diritti che ne conseguono in una comunità che voglia aiutare le persone a realizzarsi. Quando la psicologia si pone in prospettiva giuridica, poi, può entrare ulteriormente nello specifico dei vari problemi e dare un contributo alla definizione dei diritti di individui o gruppi o categorie umane specifiche (minori, anziani, disabili, minoranze etniche…). La psicologia da un punto di vista pratico è chiamata a definire la responsabilità di chi ha agito, valutando la motivazione, la consapevolezza, l’intenzione che caratterizza un comportamento normale o deviante (vedi ‘capacità di intendere e volere’, ‘valutazione della vittima: diagnosi e prognosi, ecc’, la cosiddetta “vittimologia”: rapporto interattivo fra chi commette e chi subisce il crimine).
Altre applicazioni della psicologia giuridica sono legate alle competenze della psicologia in sviluppo ed educazione, come ad esempio per valutare l’idoneità educativa parentale in adozioni, divorzi o affidamenti. Inoltre un problema che si sta ponendo nella società attuale e che può essere di competenza psicologica è quello dell’invecchiamento della popolazione, con tutte le implicazioni che ne derivano.
Il ruolo dello Psicologo in qualità’ di Perito o di Consulente Tecnico d’Ufficio e’ quello di acquisire informazioni sulle condizioni psicologiche e sulle risorse personali, familiari, sociali e ambientali del soggetto o dei soggetti, al fine di fornire al Giudice maggiori elementi per emettere una sentenza.
La mediazione familiare è relata ad una professionalità specifica nel ramo giuridico. Ancora poco conosciuta in Italia, rappresenta principalmente uno strumento per coniugi in crisi coniugale ed intenzionati a separarsi, offre un’opportunità per promuovere le risorse e sostenere competenze genitoriali con particolare riguardo all’interesse dei figli, uno strumento per esplorare soluzioni innovative e personalizzate ai loro conflitti.
Il Mediatore Familiare assumendo una posizione neutrale e imparziale non giudica l’adeguatezza degli operati dei coniugi ma facilita e stimola in essi la ricerca di soluzioni adeguate ai conflitti grazie anche allo sviluppo di nuovi canali comunicativi. Tale orientamento risponde non solo a un necessario snellimento giurisdizionale, ma e soprattutto, conduce le parti in conflitto a negoziare le rispettive istanze, uscendo dalla controversia con un accordo maggiormente condiviso e più’ rispondente ai propri bisogni, lontano da una logica che vuole sempre un vincitore e un perdente.
Va sottolineato, tuttavia, che la Mediazione Familiare non e’ necessariamente rivolta alle coppie che hanno già deciso di separarsi: in quanto servizio di aiuto in caso di conflittualità familiare, possono recarsi dal mediatore tutti coloro che vivono una situazione di conflitto in famiglia e che sentono il bisogno di trovare uno spazio neutro in cui confrontarsi per chiarire la propria posizione, le proprie idee, o ritrovare un proprio ruolo coniugale o genitoriale corroso dal tempo o da situazioni conflittuali.
Oltre ai conflitti tra coniugi, la mediazione si rivolge a tutte quelle situazioni di cambiamento e di crisi del sistema familiare in cui i membri della famiglia si trovano a dover rinegoziare le reciproche posizioni, competenze e ruoli (eredità, diatribe in merito all’assistenza di un genitore anziano e/o malato,…etc..)
Sia la psicologia giuridica, sia la mediazione familiari sono rami vasti ma al contempo specifici. A differenza della Psicologia clinica richiedono da parte dello psicologo, che agisce in qualità di perito o mediatore, un’azione valutativa strettamente legata all’oggetto della domanda esposta dal cliente o dal giudice. In ambito civile, ad esempio, il giudice potrebbe volere un quadro più dettagliato circa le “capacità o competenze genitoriali” dei coniugi prima di stabilire l’affidamento del minore; in ambito penale, invece, il giudice potrebbe chiedere una valutazione della “pericolosità sociale” per stabilire se la persona che ha commesso un reato, anche se non imputabile, può essere definita socialmente pericolosa e determinare se il soggetto potrebbe commettere reati in futuro.
A differenza del ramo clinico, nel quale lo psicologo può spaziare a livello anamnestico e valutativo nella vita del suo cliente, in un ottica biopsicosociale, nel ramo giuridico lo psicologo dovrà operare solo in funzione del quesito legale. Qualsiasi altro elemento “estraneo” non dovrà essere preso in considerazione.
Il quesito legale rappresenta l’ambito processuale entro il quale l’esperto deve muoversi.
Nel seguente articolo, “Uno sguardo all’interno delle tematiche della psicologia giuridica e forense” (vedi articolo) analizzo ulteriormente il campo d’azione della psicologia giuridica, definendone i confini con la Psicologia forense e la Criminologia.
A cura di Silvia Colizzi (Psicologa Clinica esperta in Neuropsicologia e attualmente in via di perfezionamento in Psicologia Giuridica-forense)
In alcuni momenti della vita, viene voglia di raccontarsi…
Abbiamo tutti i mezzi possibili per parlare di noi, descrive fatti, emozioni, immagini… I social media hanno segnato una svolta epocale nel nostro relazionarci con amici più o meno intimi, semplici conoscenti e completi estranei.
Eppure ci sono momenti nella nostra vita nei quali abbiamo bisogno di comunicare in maniera più autentica. C’è chi potrebbe esprimere un obiezione e dire che non usa filtri nemmeno nei social. Per quanto malauguratamente la sua comunicazione possa esser spontanea (non sempre è cosa buona eccedere di spontaneità di fronte a tante persone che non ci conoscono davvero), in fondo qualcosa di più intimo, profondo, viscerale non è mai raccolto, descritto, consegnato… prima di tutto alla coscienza individuale e poi, di conseguenza, a chi ci legge.
Resta quindi questo bisogno di una certa verità con noi stessi, introvabile in quasi tutte le relazioni sociali reali o virtuali, per paura del giudizio, per bisogni “altri” che sopraggiungono, quali quello di “stupire”, “colpire subito”, oppure all’opposto conformarsi con l’opinione prevalente per esser accettati e inclusi. Le relazioni reali dovrebbero servire anche a comunicare con autenticità, consegnare all’altro parti di noi che non abbiamo mai forse nemmeno noi visto, accettato o apprezzato abbastanza, però spesso nemmeno le relazioni reali sono terreno fertile per questi spazi, perché pieno di stress, problemi quotidiani e tensioni. Ma in questo primo articolo più che sulla distanza nelle relazioni strette, voglio focalizzare l’attenzione sulla distanza nelle relazioni delle quali ci nutriamo ogni giorno con la tecnologia.
Quanti bisogni sono nascosti dietro ogni azione sociale? Quanto poco ci ascoltiamo, parliamo con noi stessi e tiriamo fuori la nostra verità?
Vorrei che questo blog fosse uno spazio sincero dove sia io che voi, possiamo semplicemente “essere”.
Domande in privato (vedi sezione contatti) sono gradite, così come i commenti ai quali cercherò di dare un mio feedback veloce. Per questioni complesse, si ricorda, è strettamente consigliata una consulenza psicologica.
Grazie a tutti coloro che mi leggeranno e contatteranno.
A cura di Silvia Colizzi (Psicologa Clinica esperta in Neuropsicologia e attualmente in via di perfezionamento in Psicologia Giuridica-forense)