Cambiare le convinzioni limitanti. Un primo passo insieme. (1° parte)

Cosa ti frena? Cosa temi? Cosa non stai facendo solo perché non ti senti all’altezza?

Iniziamo ad esplorare il mondo delle convinzioni limitanti! L’articolo parte con un mio personale contenuto, che potrebbe esser utile. Poi si sviluppa come un esercizio fatto di domande.

Bene, siamo pronti per iniziare! Io, ad esempio, credevo “di non poter parlare in pubblico”. Pensavo alla mia timidezza dell’età infantile e adolescenziale, pensavo alle prime due presentazioni davanti ad una classe, nelle quali non mi ero sentita sufficientemente lucida per poter esporre quei concetti chiaramente e sinteticamente. Le mie convinzioni erano di 2 tipi: una legata ai miei “non posso” e una ai miei “non riesco”. Due maledetti scogli che tutti abbiamo in qualche campo della nostra vita.

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Cosa ripetevo tra me e me?

1)”Non posso parlar bene davanti ad un gruppo di persone”. Convinzione di bassa auto-efficacia.

2)“Non posso eccellere parlando davanti ad un gruppo, lo faccio meglio quando davanti ho solo una persona”. Convinzione legata a poche esperienze ripetute che sono diventate un “dato di fatto” (grande errore).

3) “Non riesco a parlar bene quando le persone che ho davanti non mi conoscono e non sanno quanto ho studiato per esser qui”. Convinzione legata ad un’autostima che ha bisogno di “riconoscimento”.

Tutto questo era altamente sabotante. Non vai da nessuna parte con queste convinzioni. Nel mio caso erano ostacolanti perché io desideravo divulgare conoscenze e parlare in pubblico!

INIZIA IL CAMBIAMENTO

Fu cosi che allora, prima di studiare PNL e tecniche di cambiamento, ho iniziato ad osservare due situazioni diverse:

  • coloro che parlano in pubblico avendo successo;
  • coloro che parlano in pubblico con diverse incertezze, apparendo timidi.

Osservavo nei corsi fatti queste diverse casistiche e riconoscevo che nel primo caso provavo stima per la persona e nel secondo caso, provavo comunque stima e ammirazione, perché quella persona aveva avuto il coraggio di rompere le sue barriere“. Ho scelto di far parte del secondo gruppo, e, consapevole degli errori che avrei fatto, della timidezza che sarebbe emersa, di qualche strafalcione e dello stress “pre-esposizione” ho volontariamente interpretato il ruolo dell’apprendista, senza più nascondermi e senza auto-giudicarmi.

Quando scegli di assumere un ruolo, sei quello e basta, non devi far “l’esperto”, “l’oratore”, sei un’apprendista che modella le sue capacità e ogni errore è un qualcosa che semplicemente “la prossima volta curerai di più”. Non avevo tecniche, ma già in maniera “naif” ciò che mi veniva detto non era più cosi determinante nella direzione intrapresa. Qualche seminario, qualche video, qualche presentazione e di “spaventoso” non c’era più nulla. Rimanevano comunque alcune convinzioni.

Durante il “rodaggio”, grazie al corso di PNL Practictioner ho imparato a lavorare sulla “gestione dello stato emotivo”. Provo a spiegarlo in poche parole.

Se associ una situazione temuta ad un’emozione dannosa per te, ti predisporrai a sentirla con tutto il corpo e sentirai davvero quella l’emozione per buona parte della situazione. Chiediti se è questo quello che vuoi? La risposta sicuramente è “NO”. Ecco una della cose che puoi fare anche tu:

  1. Sintonizzarti con tutti i sensi ad una situazione nella quale hai provato un grande senso di “soddisfazione”. Osservane i dettagli: cosa vedevi in quel momento? C’erano suoni? Voci? Che sensazioni fisiche avevi? Come percepivi la tua postura? Rivivendo quel momento intensamente, ad occhi chiusi, riporta il tuo corpo a sentire quella soddisfazione.

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Dopo la “gestione dello stato”, sul quale tornerò in un altro articolo, ho imparato a “sentirmi già là” dove ho localizzato il mio obiettivo.

Consapevole della carica energetica che esso mi dà…

Consapevole di “quanto è importante per me” (e per capire quanto una cosa è importante occorre conoscere al meglio i propri valori, perché i nostri valori non sono uguali a quelli di un amico, di un collega, non sono universali… non esistono valori giusti e sbagliati, esistono solo i nostri valori),

-> non perdo più treni importanti e soprattutto mi alleno tutti i giorni per raggiungere quegli obiettivi. Solo così ogni sforzo ha un senso, solo così anche se un singolo passo non offre tante gratificazioni, prende importanza all’interno di un viaggio più grande.

Ho imparato a farlo anche grazie alla trasformazione delle mie convinzioni attraverso nuove cornici percettive , che descriverò nella seconda parte dell’articolo (clicca qui per leggerla).

SE POSSO FARLO IO, PUOI FARLO ANCHE TU, PER QUELLO CHE DESIDERI TU!

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Se vuoi farti aiutare a superare un ostacolo che ti frena dall’ottenere ciò che desideri, uno psicologo perfezionato in Coaching, può guidarti in maniera efficace, dopo aver conosciuto la tua personalità e la parte della tua storia che vorrai portare.

Dr.ssa Silvia Colizzi

Psicologa Clinica, 
perfezionata in Psicologia Giuridica, 
Neuropsicologia, 
PNL Practictioner.

Parte di quello che mi impegno a fare 
è aiutare le persone 
ad avere convinzioni più utili.

 

 

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Psicomotricità: percorsi tra corpo e mente

Definisco la psicomotricità con le parole della mia insegnante, la dr.ssa Anne-Marie Wille che mi ha appassionata alla psicomotricità quando già ero psicologa. “All’inizio era il verbo? No, era l’azione. Ben prima di parlare infatti il bambino agisce: volta il capo, cerca con lo sguardo, prende gli oggetti… Questo è il primo modo di entrare in relazione con il proprio corpo e con il mondo”.
La psicomotricità è una disciplina che si è sviluppata negli ultimi decenni anche in Italia, di derivazione francese ed è un concentrato di attività di valutazione, terapeutiche e preventive dove il corpo non è mai scisso dalla mente.

Il mio spazio adibito alla Psicomotricità.
Il setting può esser composto da più o meno oggetti, strumenti, materiali solo motori o anche di disegno… La conduzione può esser più o meno direttiva (cioè il terapista può dare più o meno istruzioni), il tutto in base alle finalità dell’intervento.
Gli interventi infatti possono esser abilitativi / educativi e quindi svolgersi in ambienti extra sanitari (asili, scuole dell’infanzia o scuola primaria) oppure riabilitativi e quindi in ambienti clinici. Nelle scuole le attività che sono generalmente di gruppo prevedono il potenziamento di schemi motori di base, la capacità di stare in gruppi di pari rispettando regole, spazi, turni, …acquisire sicurezza, autostima, conoscere il proprio schema corporeo etc…. insomma, attività che veicolino uno sviluppo psicomotorio sano.
Negli ambienti clinici i laureati in terapia della neuropsicomotricità, o gli psicomotricisti che possono essere anche psicologi adeguatamente formati, lavorano con bambini e genitori per riabilitare aspetti dello sviluppo o fisico, o cognitivo psicologico che possono risultare difficoltosi o deficitari: esempio goffaggine, inibizione e poca esplorazione degli oggetti e degli spazi, iperattività motoria e cognitiva, tratti di aggressività e oppositività, tratti di forte timidezza.

Motricità globale: propriocezione, coordinazione, equilibrio, controllo tonico…
In generale con la psicomotricità si vanno a potenziare:
– la motricità globale (con esercizi che coinvolgono tutto il corpo);
– la motricità fine (con esercizi che coinvolgono braccia e mani e la coordinazione occhio-mano);
– la coordinazione e la propriocezione (cioè come il bambino sente e percepisce il proprio corpo nella sua forza, forma, …);
– l’attenzione;
– la memoria;
– le funzioni visuo spaziali e la spazialità (cioè l’abilità di organizzare gli oggetti nello spazio o di posizionare sé stessi nello spazio con esercizi di esplorazione, posizionamento, …..);
– gli altri aspetti della sensorialità (ad esempio il tatto) con esercizi che prevedono l’utilizzo di materiali con caratteristiche diverse;
– il concetto di temporalità (con esercizi sul ritmo, la frequenza e l’utilizzo del corpo e del movimento con stimoli musicali);
– le abilità relazionali perché gli esercizi sia che siano di gruppo sia che siano individuali prevedono il rispetto di uno spazio e di tempi condivisi con i pari o con il terapista;
sicurezza, autostima, conoscenza di sé, rispetto degli altri, etc sono aspetti emotivo-relazionali sollecitati e stimolati dalla disciplina psicomotoria.

Psicomotricità funzionale
Quindi abbiamo capito che nei percorsi educativi è un grande aiuto allo sviluppo e nei percorsi terapeutico/riabilitativi è un ottimo strumento per migliorare delle difficoltà sia fisiche sia psicologiche e in questo caso è necessario un lavoro di equipe. Quindi, la psicomotricità è molto più di un gioco o di un esercizio fisico e ritengo che sia molto importante che i genitori sappiano cosa c’è dietro a questi momenti nei quali il bambino crea, gioca e si diverte.
Dr.ssa Silvia Colizzi Psicologa clinica, perfezionata in Neuropsicologia, Psicomotricità, DSA, PNL e Coaching.

Processi di crescita dell’autostima

Dalla televisione, dai giornali e dalla rete arrivano continuamente consigli per dimagrire, raggiungere un obiettivo di salute fisica e, talvolta, consigli per affrontare lo stress, le ansie, migliorare l’autostima. Tutto questo aumento della comunicazione inerente alla promozione della salute ha sicuramente sensibilizzato il pubblico nello stare più attento a quello che mangia (o se continua a mangiare come prima per lo meno è più consapevole che dovrebbe apportare qualche cambiamento), più attento all’importanza di uno stile di vita attivo e alle conseguenze della sedentarietà e, infine, più attento a come affronta i fattori stressanti o i conflitti quotidiani, cercando di riflettere di più prima di agire o migliorare la propria assertività (cioè il sapersi opporre o dire la propria opinione quando non siamo d’accordo con qualcosa che sta accadendo).

Tutto ciò va benissimo. Solo che in tutte queste informazioni c’è una pecca: non sono perfette per tutti. Ognuno ha la propria struttura fisica, la propria morfologia che ci è stata data dalla genetica e modellata dai primi 20/30 anni di vita nei quali il corpo ha un grande potenziale metabolico e risponde molto più velocemente alle stimolazioni meccaniche, attraverso il corretto esercizio fisico, e chimiche (attraverso l’introduzione di alimenti ben scelti, dosati ed abbinati). Ognuno ha la sua struttura di personalità, anch’essa modulata dal temperamento che ha basi genetiche e biologiche e dai tratti del carattere, che si sono costruiti sulla base delle relazioni affettive, delle esperienze di vita accumulate e delle risposte ottenute dall’ambiente.

autostimaQuindi i punti di partenza per migliorare la propria autostima sono: la consapevolezza di essere unico, riconoscere i propri punti di forza, osservare la nostra personalità “come se fosse un quadro”, disegnato dalle nostre mani e talmente ricco di forme e colori da esser difficilmente decifrabile, ma sicuramente non ripetibile, nemmeno da noi stessi, perché ogni esperienza fatta in diversi momenti della nostra vita può apparire diversa e così ogni segno sulla tela è unico e non va cancellato. Il quadrò ha spazi migliorabili? Ha spazi troppo bui? Ha spazi vuoti? Possiamo certamente migliorarlo, ma non con consigli generalisti. La stessa cosa vale per la forma fisica. Proviamo ad immaginare la forma fisica come un’opera musicale stavolta, essa come una composizione, dunque, muta nel tempo. Mutare è naturale, il cambiamento è segno che non ci siamo fossilizzati in un momento passato. Un corpo “immobile” è un corpo che ossessivamente insegue sé stesso, la mente sarà tutta presa nel tenere a bada ogni cambiamento, proprio come se il corpo fosse una statua e non un insieme di cellule che nascono e muoiono continuamente e quindi, si modificano e ci ricostruiscono ogni giorno. Il corpo come una composizione musicale, invece, ha momenti lenti, gravi, faticosi, momenti veloci, acuti, incalzanti. Prima lo accettiamo prima potremo cambiare serenamente il nostro stile di vita, non come un dogma derivato dai consigli ma come un bisogno. Il nostro metabolismo infatti può esser aiutato, quindi se noi ci conosciamo e ci accettiamo fisicamente, per come siamo oggi e come siamo stati in passato, possiamo iniziare a dare i giusti stimoli al nostro corpo per innalzare il metabolismo, sentire un sano appetito e non una fame nervosa, godere dei piaceri della vita senza sensi di colpa perché sappiamo che non sarà uno di questi a far cadere tutti i nostri “sforzi”. In realtà scrivere una composizione musicale è un lavoro complesso, fatto di abbinamenti, scelta di tempi, di pause… quindi non si può dire che non ci sia dietro un lavoro, tuttavia si può iniziare a provare piacere quando il benessere, che ci viene restituito dall’impegno quotidiano, supera la fatica dello sforzo che sostiene l’impegno del cambiamento.

capelliUna corsa, una camminata o esercizi più mirati possono inizialmente sembrare una fatica, ma nel tempo possono diventare quasi un bisogno, un mezzo per star meglio, un piacere. Questo vale anche per la bella sensazione che si può provare nel cucinare un piatto sano, gustoso, colorato. Sono tutti simboli dell’amore che proviamo verso noi stessi e verso le persone che ci amano, perché imparando a condurre mente e corpo come opere artistiche, dove emozioni e ragione non sono mai disgiunte, faremo anche il regalo alle persone che ci stanno attorno di aver accanto una persona sa vicariare forza ed energia, un “modello” da prendere come esempio.

L’autostima non sale con lo sforzo del pensiero, ma tramite l’armonia dei nostri comportamenti e in base al nostro sguardo sul mondo, due elementi che cambiano naturalmente se sappiamo prenderci cura di noi.

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I professionisti della salute e del benessere dovrebbero riuscire a condurre clienti e pazienti verso questa armonia. Chiedere aiuto non è un segno di debolezza ma una cura in più verso la nostra persona.

Dr.ssa Silvia Colizzi

In alcuni momenti della vita, viene voglia di raccontarsi…

Abbiamo tutti i mezzi possibili per parlare di noi, descrive fatti, emozioni, immagini… I social media hanno segnato una svolta epocale nel nostro relazionarci con amici più o meno intimi, semplici conoscenti e completi estranei.

Eppure ci sono momenti nella nostra vita nei quali abbiamo bisogno di comunicare in maniera più autentica. C’è chi potrebbe esprimere un obiezione e dire che non usa filtri nemmeno nei social. Per quanto malauguratamente la sua comunicazione possa esser spontanea (non sempre è cosa buona eccedere di spontaneità di fronte a tante persone che non ci conoscono davvero), in fondo qualcosa di più intimo, profondo, viscerale non è mai raccolto, descritto, consegnato… prima di tutto alla coscienza individuale e poi, di conseguenza, a chi ci legge.

Resta quindi questo bisogno di una certa verità con noi stessi, introvabile in quasi tutte le relazioni sociali reali o virtuali, per paura del giudizio, per bisogni “altri” che sopraggiungono, quali quello di “stupire”, “colpire subito”, oppure all’opposto conformarsi con l’opinione prevalente per esser accettati e inclusi. Le relazioni reali dovrebbero servire anche a comunicare con autenticità, consegnare all’altro parti di noi che non abbiamo mai forse nemmeno noi visto, accettato o apprezzato abbastanza, però spesso nemmeno le relazioni reali sono terreno fertile per questi spazi, perché pieno di stress, problemi quotidiani e tensioni. Ma in questo primo articolo più che sulla distanza nelle relazioni strette, voglio focalizzare l’attenzione sulla distanza nelle relazioni delle quali ci nutriamo ogni giorno con la tecnologia.

Quanti bisogni sono nascosti dietro ogni azione sociale? Quanto poco ci ascoltiamo, parliamo con noi stessi e tiriamo fuori la nostra verità?

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Vorrei che questo blog fosse uno spazio sincero dove sia io che voi, possiamo semplicemente “essere”.

Domande in privato (vedi sezione contatti) sono gradite, così come i commenti ai quali cercherò di dare un mio feedback veloce. Per questioni complesse, si ricorda, è strettamente consigliata una consulenza psicologica.

Grazie a tutti coloro che mi leggeranno e contatteranno.

A cura di Silvia Colizzi (Psicologa Clinica esperta in Neuropsicologia e attualmente in via di perfezionamento in Psicologia Giuridica-forense)

Disturbi d’ansia, questi “conosciuti”. Il GAD.

GAD è l’acronimo inglese di Generalized Anxiety Disorder, che in italiano si traduce come Disturbo d’Ansia Generalizzata. L’ANSIA è uno “stato di allarme” continuo e generalizzato verso una vasta serie di stimoli esterni di cui il soggetto sopravvaluta il pericolo potenziale ed è la caratteristica di base del GAD.

Un luogo comune da sfatare è che l’ansia possieda solo un’accezione negativa. L’ansia, infatti, è radicata nella natura umana ed è funzionale alla mobilitazione di risorse necessarie per la gestione di situazione difficili per il soggetto.
Essa offre la possibilità di affrontare con successo lo stimolo che l’ha indotta. Negli animali la sua funzione è avvertire della necessità di agire in direzione di scopi biologici da raggiungere, come la sopravvivenza.

An image of girl with headacheNell’uomo moderno, la sua funzione rimane quella di preparare l’individuo a reagire a stimoli che lo metteranno alla prova, come situazioni potenzialmente pericolose, svilenti o aperte al giudizio altrui, etc.
Avrete provato tutti una certa qual dose d’ansia prima di una gara sportiva, di un esame, di un colloquio di lavoro? Bene, sappiate che sarà stata proprio questa sensazione, con il suo significato protettivo perché innato e radicato nell’evoluzione di uno dei sistemi più primitivi, che vi avrà permesso di raccogliere le risorse psico-fisiche necessarie per una buona performance.
Anche l’ansia indotta da uno sintomo somatico permette al soggetto di avere una maggiore probabilità di un esito positivo per la sopravvivenza, perché lo indurrà ad effettuare visite, esami di controllo, a modificare lo stile di vita…etc.
Quando il livello d’allerta supera una certa soglia (determinata da caratteristiche biologiche ma anche ambientali/ situazionali dell’individuo), l’ansia diviene disadattiva e determina un calo del rendimento.
In altre parole, quando l’ansia induce una riduzione della probabilità di affrontare con successo il “pericolo”, o semplicemente le “sfide” di tutti i giorni, ecco che possiamo parlare di ansia patologica.
Inoltre, per l’organismo umano vale il principio della conservazione dell’energia: livelli di attivazione bassi permettono una migliore conservazione del “sistema uomo”, si pensi all’effetto dannoso di una attivazione cronica del sistema ormonale dello stress (cortisolo) che risulta essere addirittura neurotossico.
Quindi, un organismo sano tende ad utilizzare il minimo di energia possibile per fronteggiare efficacemente i pericolo esterni ed interni. Per questo, tutto quello che abbiamo detto finora, compresa un certa dose d’ansia giornaliera, è funzionale al buon adattamento sociale di ciascuno di noi.
Tra le manifestazioni somatiche dell’ansia patologica abbiamo una sintomatologia simile a quella del panico, seppur meno intensa, meno improvvisa e che si sviluppa in maniera più graduale.
Le persone con GAD lamentano spesso dispnea, sensazione di soffocamento, palpitazioni, sudorazione o mani fredde e bagnate, bocca asciutta, nausea o disturbi addominali, vampate di calore o brividi, disfagia o “nodo alla gola”, contrazioni muscolari tensioni o dolenzia muscolare, facile affaticabilità ed irrequitezza.

Ma ancora più “curiosamente” l’ansia patologica e’ uno stato affettivo caratterizzato da particolari componenti cognitive, quali un’amplificazione peggiorativa del reale, un’attesa costante del danno e una sensazione d’impotenza. Infine, è osservabile una componente comportamentale, finalizzata alla risoluzione o allontanamento della minaccia.
La persona appare quindi in “allerta” nella maggior parte delle situazioni.
Tutti noi tendiamo a preoccuparci di cose come i problemi di salute, il denaro o la famiglia, ma le persone con il Disturbo d’Ansia Generalizzata sono estremamente preoccupate per queste e molte altre cose ancora, anche quando non vi è nessuna ragione di esserlo.Young woman covering face with hands, looking through fingers, close-up
Pensano che le cose andranno sempre male. Talvolta, anche solo affrontare la vita quotidiana diviene un qualcosa di davvero pesante e stressante.
Il GAD è un disturbo meno “evidente” del disturbo di panico: queste persone non corrono in pronto soccorso, non pensano di aver un infarto, di morire o di impazzire…tuttavia sono sempre allarmate e preoccupate e spesso vengono persino prese in giro perché ciò che dovrebbe esser assimilato ad un disturbo trattabile con psicoterapia e, se necessaria, una terapia farmacologica, viene confuso con un tratto di personalità o addirittura come una “scelta” del soggetto di esser un “uccello del malaugurio” per sé stessi e per gli altri.
Oggi, le elevate richieste che ci vengono fatte dalla società in cui viviamo non favoriscono l’acquietarsi dei sintomi ansiosi.

Ciò che è necessario fare è chiedere sempre aiuto se sentiamo di non riuscire più a gestire da soli, e senza preoccuparci troppo, le piccole incombenze della vita quotidiana!

 

Disturbi d’ansia, questi “conosciuti”. Il Panico.

Negli ultimi anni, anche al di fuori degli ambienti medici e psicologici, si parla sempre di più di Disturbi d’Ansia (DA). Questa maggior esigenza di diffondere e ricevere informazioni è legata al clima economico-sociale di una società investita da innumerevoli fattori stressanti.

Una delle manifestazioni più diffuse dell’ansia è l“attacco di panico”. Quest’ultimo è definibile come un episodio ansioso acuto, spontaneo e improvviso, che insorge generalmente senza che la persona si trovi di fronte a una situazione temuta. Sappiamo, tuttavia, che i primi attacchi insorgono in momenti stressanti della vita di un individuo e che, una volta vissuta questa esperienza spiacevole, si creeranno inevitabili associazioni tra luoghi, situazioni e persone presenti nel momento dell’attacco, comportando spesso successivi “attacchi di panico situazionali”.

Tra i sintomi somatici (corporei) più comuni, abbiamo: sensazione di fiato corto, tachicardia, tremori, sudorazione, sensazione di soffocamento, nausea e disturbi addominali (esiste anche il “panico addominale”). Tra quelli cognitivi (mentali), invece, vi sono: paura di morire, d’impazzire o di fare qualcosa d’incontrollato, la sensazione di estraneità/ distanziamento dal contesto (derealizzazione) o da sé stessi (depersonalizzazione). Queste sensazioni non si sviluppano in modo lento, ma raggiungono il picco nel giro di 10 minuti e questo, oltre alla carica e al numero dei sintomi, li differenzia dalle crisi d’ansia.

Un attacco di panico può rimanere isolato nella vita di un individuo, oppure può esser seguito da altri attacchi, in questo caso si parla di “Disturbo di Panico” (DP). Le persone con DP mostrano anche una costante ‘ansia anticipatoria’ verso la possibilità di nuovi attacchi e una significativa alterazione del funzionamento sociale.

Il DP può esser accompagnato, o meno, da “Agorafobia”, definibile come la paura di trovarsi in luoghi nei quali si teme di non poter essere visti e soccorsi in caso di attacco di panico (es. enormi piazze, etc.) o dai quali non si può facilmente scappare quando si sente arrivare la forte sintomatologia ansiosa (es. metropolitane affollate, etc.).

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La scienza sta facendo molto per scoprire le cause genetiche e ambientali del DP. Già dal 2001, si sa che ‘la fame d’aria’ dei soggetti con DP viene regolata dagli stessi meccanismi che, in condizioni normali, permettono di reagire agli stimoli di soffocamento.

Gli esperti hanno localizzato i meccanismi che rispondono in maniera eccessiva alle concentrazioni di anidride carbonica nei recettori muscarinici del midollo allungato (Battaglia e collaboratori, 2001). Esistono farmaci capaci di mettere in ‘stand-by’ questi recettori, portando i pazienti a comportarsi esattamente come farebbe una persona senza “panico”. Gli stessi ricercatori, in una ricerca del 2009, hanno anche individuato una relazione tra il Disturbo d’Ansia da Separazione (un disturbo evolutivo) e il Disturbo di Panico, dimostrando che il distacco, anche da un solo genitore, aumenta nei bambini ‘geneticamente vulnerabili’ (con aumentata sensibilità alla CO2), il rischio di sviluppare attacchi di panico in età adulta (Battaglia e collaboratori, 2009).

Per cui esperienze precoci di distacco renderebbero più vulnerabile un sistema. Questo è solo uno dei possibili scenari, ma è necessario rendersi conto che i disturbi più complessi si sviluppano sempre nel gioco interattivo tra variabili biologiche e ambientali. Ecco perché oggi, con tutto lo stress che “respiriamo”, questo e altri Disturbi d’Ansia sembrano essere così prevalenti. Cambia la società, cambia la valenza delle psicopatologie.

Siamo dunque di fronte ad un disturbo estremamente spiacevole che causa un notevole disagio a chi ne soffre. Merita una sensibilità adeguata, nonché un approccio integrato psichiatrico e psicoterapeutico, al fine non solo di calmare la sintomatologia, ma di individuare le cause sottostanti, in termini di emozioni e pensieri disfunzionali.

“Niente panico”, oggi gli specialisti possono fare tanto. Il primo passo è la condivisione, l’aprirsi e il chiedere aiuto.

Psicologia dello sport: quando si può parlare di dismorfismo corporeo.

E’ sempre bene sottolineare la distinzione che separa un tipo di esercizio fisico sano ed equilibrato, rivolto ad un’adeguata cura di sé, al mantenimento di un aspetto desiderabile ed al potenziamento della propria vitalità, da un altro modo di vivere lo sport, dove le pratiche legate all’allenamento diventano cosi totalizzanti da interferire con tutti gli altri aspetti della vita. In questa seconda ‘attitudine’ l’investimento sull’immagine è assoluto, annullando ogni consapevolezza di sé che non sia basata sull’esteriorità. In maniera più grave ci si può riferire al fanatismo per lo sport, ed al concetto di sovra-esercizio: nel tempo sono stati coniati termini nuovi come ‘negative addiction’, ‘compulsive exercise’ o ‘exercise dependance’, per descrivere un tipo di attività fisica estrema, sia in frequenza che in durata, accompagnata da un’irresistibile coazione alla prestazione e da possibili crisi di astinenza.
Sebbene il concetto di sovra-esercizio sia di difficile classificazione e misurazione, esiste oramai una quantità di dati sufficienti per affermare che, in determinate circostanze, esso è legato fortemente ad un’insoddisfazione corporea e può causare disturbi alimentari.

RIFLESSIONI

A mio avviso è utile distinguere:

1) Un “aumento di attività fisica” costituito da allenamenti mirati e obiettivi tangibili, che si manifesta come una sana e progressiva trasformazione dell’attività sportiva, che da hobby diventa un abitudine e una passione . Questo non è legato a problematiche psicologiche di base dovute ad un insoddisfazione patologica dell’immagine del proprio corpo, tantomeno ad un dismorfismo corporeo.
non parliamo di un aumento unicamente quantitativo, ma di una vera e propria compulsione! In altre parole, per parlare di problematiche psicopatologiche sottostanti all’attività fisica, occorre che la condotta sportiva sia compulsiva e alla base vi siano vere e proprie ossessioni legate al proprio corpo. In questo caso, sarebbe auspicabile un aiuto specialistico, purtroppo il soggetto -salvo casi di problematiche conseguenti legate alla salute- difficilmente cercherà un aiuto psicologico.

2) quando si parla di angoscia verso un proprio difetto fisico o una preoccupazione eccessiva verso il proprio corpo, allenarsi non da un senso di benessere, ma diviene una compulsione che non soddisfa mai fino in fondo. il soggetto cercherà sempre nuovi modi per aumentare resistenza, forza, massa, magrezza, potenza, elasticità’,…e non solo…la persona non si piacerà’ mai davvero… l’insoddisfazione fisica riflette altre insoddisfazioni più profonde.

Nelle donne è spesso associato a disturbi alimentari e negli uomini a bigoressia o dismorfofobia muscolare (conosciuta anche come vigoressia).

 

 

Tuttavia l’associazione non è così lineare:

3) tutti nutriamo una normale insoddisfazione! il 65% delle donne e piu del 50 % degli uomini nutre qualche insoddisfazione verso il proprio corpo e fare sport e’ un modo sano per migliorare. anche la chirurgia estetica in alcuni casi può essere un aiuto…
se le motivazioni e le aspettative sono realistiche, i comportamenti volti a una maggior soddisfazione estetica non sono né criticabili, né di serie b rispetto ad altri desideri…

E’ un discorso complesso, difficile da trattare in poche righe. E’ sbagliato banalizzare e saltare subito a conclusioni. Ad ogni modo ho pensato di introdurlo perché può definirsi l’unico grande “nucleo patologico dello sport”. PER IL RESTO LO SPORT RESTA SEMPRE E SOLO UNA RISORSA, UN MEZZO E UN ATTIVITÀ DA VALORIZZARE E PROMUOVERE!

Silvia C.

Tossicodipendenze…"Malessere nel benessere"

MALESSERE NEL BENESSERE

 
La ricchezza non elimina il disagio sociale, ma ne crea di nuovo”. (Miazzi 2000)
Senza dubbio le relazioni familiari sono importanti per lo sviluppo più o meno adattivo di un giovane. Il fatto di crescere in ambienti degradati e marginali, dove altri soggetti fanno uso di sostanze e/o compiono atti criminali, o dove le gravi mancanze affettive ed educative giocano un brutto tiro nella linea evolutiva del soggetto, resta un elemento centrale negli studi psicosociali sulle tossicodipendenze.
Tuttavia…la “patologia della normalità”, che si può estendere a tutti quegli atti devianti non collegabili a situazioni di marginalità o psicopatologia, pervade significativamente il tempo presente.
All’interno di questi atti vi è senza dubbio l’abuso di sostanze stimolanti ed eccitanti. I nuovi soggetti dipendenti provengono da strati medi o medio-alti, hanno nuclei familiari regolari e vivono in ambienti apparentemente privi di rischi specifici. Sono generalmente adolescenti o giovani adulti.
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CITAZIONI DAL CODICE CIVILE IN MATERIA DI FAMIGLIA ED EDUCAZIONE DELLA PROLE

 
Art. 147 Codice Civile : “ Doveri verso i figli. Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole, tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli”.
Art. 155 Codice Civile : “ Provvedimenti riguardo ai figli. Anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
Legge 8 febbraio 2006, n. 54 . Introdotto il “Diritto del minore alla bigenitorialità”.

RIFLESSIONI PROVOCATORIE

 
Se ci troviamo di fronte ad una “famiglia modello” (sia essa nucleare oppure “allargata”), la quale “rispetta” il codice civile, dove però uno dei figli ha problemi di droga o di dipendenza dall’alcool, sorgono inevitabilmente nuove domande, preoccupazioni, dubbi e incertezze.
IL MALESSERE NEL BENESSERE è UN FENOMENO PSICOSOCIALE CHE ESISTE DA DECENNI MA CHE MAI COME NELL’ERA ODIERNA SI è DIFFUSO.

Ma che cos’è questo “malessere nel benessere”?

 
Se proviamo a digitare in un motore di ricerca queste parole, troviamo nei diversi articoli delle “chiavi di lettura costanti”:
Si parla di “noia”, della perdita di interessi, della difficoltà di provare sensazioni piacevoli nella quotidianità, del bisogno di sballarsi, di  ansia da prestazione sociale, difficoltà nel creare relazioni stabili e appaganti…
Si possono ipotizzare carenze di altro tipo all’interno del contesto familiare: vuoti comunicativi,  beni materiali che sostituiscono beni affettivi , richieste eccessive e stressogene. Tuttavia, le fonti del disagio non possono esser cercate solo all’interno delle mura domestiche.

Ambiente familiare verso AMBIENTE SOCIALE

L’uso/abuso sempre più massiccio di sostanze eccitanti in strati sociali “alti”, anche da parte di giovani adulti apparentemente realizzati, è riconducibile al fenomeno di cui stiamo parlando.
droga-634x444Dunque se l’ambiente familiare non estingue la totalità dei fattori di rischio, è l’ambiente nella sua accezione più ampia (cultura, valori, mode del momento,…) ad essere incriminato oggi più che mai.

Un ambiente promotivo e permissivo è senza dubbio positivo perché aumenta le potenzialità del soggetto di sperimentare e di realizzarsi. Tuttavia in una società che vende modelli di “successo facile e veloce” e che richiede sfacciatamente efficienza e produttività molti giovani trovano nelle sostanze eccitanti il modo per alimentare l’illusione di sentirsi partecipi allo stile di vita “vincente” conforme alle richieste dalla società contemporanea.

Limitless-2011-bipolarismo-dipendenza-e-potenziamento-delle-capacita-cerebrali-Recensione-del-film-680x365

Per concludere…

Consapevole del fatto che i fattori causali di un comportamento disfunzionale non sono mai da considerarsi singolarmente e che in genere appartengono sia all’ambiente che alle predisposizioni individuali, ritengo che nello studio delle tossicodipendenze non ci si possa fermare all’apparente assenza di fattori di rischio all’interno di famiglie e contesti benestanti, e che non si possa disconoscere la costante “normalità” nella quale sempre più spesso si manifesta questo fenomeno.