Di cosa si occupa la psicologia ospedaliera? E’ possibile portarla fuori dagli ospedali?

L’evoluzione della medicina e della psicologia, hanno portato una sempre maggiore attenzione alla componente soggettiva del paziente, creando le condizioni per una visione più ampia dell’assistenza alla persona malata. Si abbandona la concezione del malato come “oggetto” da curare, a favore di un’ottica globale e multi-disciplinare, in cui la relazione diventa il nodo centrale della cura. 

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Le principali problematiche di cui si occupa la Psicologia Ospedaliera (detta anche Psicologia Medica e inclusa nel più ampio range della Psicologia della salute) riguardano:
– il disagio psicologico che, in misura diversa, accompagna ogni esperienza di malattia. La comparsa di una malattia, improvvisamente o progressivamente, rappresenta la rottura di un equilibrio, una minaccia che, a seconda del tipo e della gravità, produce modificazioni nella vita personale, familiare, sociale e lavorativa. Alcune patologie modificano radicalmente la propria vita e quella dei familiari, talvolta causano importanti capovolgimenti economici; altre volte sono vissute come vere e proprie “condanne” definitive. In altri termini, quando una persona si ammala, si ammala nella sua totalità.

– la sofferenza emotiva di un’ampia fascia di malati affetti da patologie spesso gravi, croniche e/o a prognosi infausta (cancro, dialisi, sclerosi multipla, sclerosi laterale amiotrofica, ustioni gravi, politraumi, diabete, ecc.) i quali in aggiunta ai problemi fisici, devono confrontarsi con reazioni emotive molto intense e con sequele psicologiche complesse che rendono ancora più difficile la loro esperienza di malattia.
– gli effetti che tale sofferenza emotiva ha sul paziente, i suoi familiari e sugli operatori;
– l’assistenza psicologica ai pazienti e ai loro familiari, erogata nell’ambito dei protocolli diagnostici e terapeutici specialistici, inerenti vari contesti assistenziali come i trapianti d’organo, la riabilitazione motoria, cardiologica, respiratoria, neuropsicologica, la chirurgia speciale nelle gravi obesità, la patologia neonatale, e rianimazione pediatrica, la maternità assistita, ecc.

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La Psicologia Ospedaliera, quindi, si occupa dei disturbi, psicologici, neuropsicologici, affettivi dei malati degenti o in cura ambulatoriale e delle difficoltà emotive e relazionali delle persone che a causa di una patologia quasi sempre organica, acuta o cronica, medica e/o chirurgica afferiscono all’Ospedale Generale.

Le reazioni psicologiche, emotive e relazionali conseguenti alle patologie in atto, raramente sono di natura psichiatrica; queste reazioni, benché intense, vanno interpretate nell’ottica della dialettica emotiva e psicologica interiore propria delle persone senza precedenti problematiche psichiche, anche quando sono dure, faticose e complesse e necessitano di un intervento psicologico specifico e/o psicofarmacologico.

Altre problematiche di cui si occupa la Psicologia ospedaliera sono:
– il supporto e la formazione psicologica degli operatori, specie quelli delle aree “critiche;
– il miglioramento della qualità di vita dei malati;
– l'”umanizzazione” dell’assistenza;
– la prevenzione e promozione della salute.

In sintesi, le aree direttamente interessate dalla Psicologia Ospedaliera sono tre, cioè quella della sofferenza psichica del paziente e dei suoi familiari, quella della formazione degli operatori e quella della organizzazione del lavoro.

Alcuni aspetti possono esser portati dall’istituzione pubblica al privato? Ovviamente ci sono molte criticità sia da un punto di vista della sostenibilità economica dei percorsi, sia della minor possibilità di interagire con i medici curanti, ma non è impossibile occuparsi di psicologia della salute al di fuori dagli ospedali.

Dr.ssa Silvia Colizzi

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Binge Drinking_Quando l’alcool si sostituisce al cibo.

Il “Binge Drinking” è l’abbuffata alcolica con la quale un soggetto ingerisce velocemente una grande quantità di bevande alcoliche fuori dai pasti, fino a sentire l’effetto desiderato: euforia, maggior sicurezza, stordimento ed appiattimento di ogni pensiero e preoccupazione. È un fenomeno diverso dall’alcool dipendenza intesa in senso classico. Può sicuramente tramutarsi in dipendenza, ma può esser un fenomeno ricreazionale e del fine settimana per un lungo periodo di tempo. Non per questo è esente da gravi danni fisici e rischi sociali, dovuti al discontrollo degli impulsi causato dall’euforia alcoolica.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel “Rapporto Globale su alcol e salute 2014″ dichiara che i “binge drinkers” rappresentano complessivamente il 6,3% della popolazione adolescenziale, con un rapporto 5:1 tra maschi e femmine. Il binge drinking è un fenomeno consolidato tra i maschi di 18-24 anni, mentre una riduzione si registra tra le donne di qualsiasi età e tra gli uomini nella fascia d’età over 45.

Quali sono, dunque, le conseguenze fisiche sul cervello nei soggetti che praticano “binge drinking”in adolescenza e prima età adulta?
Il cervello subisce significativi cambiamenti strutturali e funzionali tra infanzia e l’adolescenza, con la maturazione che inizia nella prima età adulta (Pfefferbaum et al., 1994). Tratti di fibre di sostanza bianca continuano a svilupparsi fino ai 24-25 anni per consentire la comunicazione più efficiente e rapida tra varie regioni cerebrali. Quest’ultime sono specialmente aree del cervello associate a funzioni cognitive di ordine superiore, quali le regioni frontali e pre-frontali che regolano l’attenzione, il controllo e l’inibizione degli impulsi, nonché la pianificazione delle azioni e le zone subcorticali correlate alle emozioni e il ricordo emotivo degli eventi, specialmente l’ippocampo (Sowell et al, 1999, 2004; Shaw et al., 2008; Giedd e Rapoport, 2010; Lebel et al, 2012, López-Caneda et al, 2017).

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Di fronte ad uno sviluppo cerebrale che non si è ancora concluso, possiamo immaginare come grandi dosi di etanolo possano compromettere il consolidamento di importanti connessioni tra gli impulsi e la capacità di controllarli. Infatti, gli esperimenti sugli animali hanno dimostrato che grandi quantità di alcool sono in grado di produrre neurodegenerazione necrotica nelle aree del cervello più strettamente legate l’ippocampo e una diminuita attività dei neuroni nella zona prefrontale in base alla quantità di etanolo iniettata (Journal of Neuroscience, Tu, Y et al. 2007).
Ciò avviene perché il rilascio di glutammato nell’ippocampo (neurotrasmettitore eccitatorio, che assieme alla dopamina causa la fase di esaltazione e euforia) è seguita dal rilascio di neurotrasmissione GABA-ergica (una neurotrasmissione inibitoria-depressiva per il Sistema Nervoso Centrale). Più aumenta l’attività inibitoria delle funzioni nervose, più si riducono le capacità di memoria a breve termine e apprendimento visuo-spaziale con conseguente disorientamento (Argenti et al., 2003).
Un recentissimo studio comparativo, condotto da Adela Rendón e collaboratori nel 2015, tra un gruppo di ragazzi messicani che praticavano “binge drinking” e ragazzi non bevitori o bevitori moderati, ha mostrato che i binge drinkers presentano danni ossidativi doppi alle membrane cellulari rispetto all’altro gruppo. Un ultimo dato riguarda l’analisi del materiale genetico presente nelle cellule linfocitarie del sangue dei soggetti che praticavano binge drinking, i quali presentano cellule danneggiate in misura 5:1, se confrontati ai bevitori moderati. Bere in maniera compulsiva per lunghi periodi di tempo, può danneggiare irreversibilmente il DNA, comportando danni alle cellule del fegato, del cervello, dello stomaco e dell’intestino, come già osservato negli alcolisti di lunga data. Inoltre, diversi studi indicano come
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Considerando le gravi conseguenze bio-psico-sociali del Binge Drinking, e l’elevata sensibilità all’alcool della popolazione giovanile, non possiamo non augurarci che queste straordinarie ricerche portino a nuove strategie terapeutiche per coloro che abusano di alcool e un approccio sempre più mirato e in linea con le nuove tendenze per le famiglie di adolescenti e giovani adulti con questo grave disturbo comportamentale. 

Alimentazione incontrollata. Approccio multidisciplinare

Il Disturbo da Alimentazione Incontrollata, definito comunemente con la sigla BED (dall’inglese Binge Eating Disorder) è un Disturbo del Comportamento Alimentare (DCA), riconosciuto come disturbo a sé stante dal DSM-5 (Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali, 2013), data l’importanza e la diffusione di questa forma di disagio.

La persona che soffre di BED ha progressivamente sviluppato un rapporto disfunzionale con il cibo, il quale diventa il contenitore di disagi esistenziali e problemi irrisolti che non riescono ad esser veicolati attraverso vie più funzionali e utili per il superamento degli stessi. Quindi, questi pazienti hanno come istinto principale quello dell’«abbuffata», cioè l’atto di “divorare” grandi quantità di cibo in un breve periodo di tempo, senza però ricorrere alle condotte eliminatorie dei soggetti bulimici. Il cibo che «inonda e riempie» non sarà rigettato con il vomito autoindotto, espulso con abuso di lassativi o bruciato con eccessiva ed estenuante attività fisica: per loro il cibo introiettato rimarrà nel corpo a riempire e soddisfare quel bisogno che ha spinto la persona ad introdurlo. L’abbuffata è spesso seguita da sentimenti di colpa, vergona e disagio marcato. Tra un’abbuffata e l’altra, le persone che soffrono di BED soffriranno senza agire e sarà molto difficile per loro anche ridurre il cibo per controllare l’aumento di peso. L’esito di questo comportamento sarà, nel medio-lungo periodo, una condizione di obesità.

108589893_2.jpgMolto spesso alla base dell’obesità ci sono altre problematiche: predisposizione genetica, alterato sistema di controllo dell’assimilazione e del metabolismo di certi nutrienti, disfunzioni ai centri del controllo della fame a livello ipotalamico (per le quali si verifica la necessità di un’ipernutrizione). Tuttavia, nei casi di BED la causa è multifattoriale e principalmente psicologica, pertanto il soggetto potrà emergere dalla sua condizione solo se aiutato nell’individuare le cause del disagio, nonché attraverso lo sviluppo di nuove consapevoli abitudini legate all’alimentazione e allo stile di vita. Non basterà il supporto di un medico nutrizionista, perché risulta molto difficile per le persone affette da Disturbi Alimentari affidarsi a ordini, accettare consistenti riduzioni o privazioni. La rappresentazione del cibo per loro non è più solo legata al gusto, al piacere, o nel migliore dei casi all’apporto nutritivo: il cibo è un’ossessione, un’idea fissa o ricorrente, un vero e proprio regista capace di dirigere le loro giornate. L’abbuffata, inoltre, può esser innescata da un’emozione negativa nata da una critica, un rifiuto, una delusione; quindi immaginiamo come un rapporto medico-paziente basato solo sulla “prescrizione alimentare” non possa funzionare. È necessario un approccio multidisciplinare. 
Sul territorio italiano sono presenti i Centri DCA, nei quali equipe multidisciplinari formate da medici-nutrizionisti, psicologi esperti in DCA, psicologi psicoterapeuti, dietisti, infermieri e fisioterapisti, seguono i pazienti in regime di Day Hospital, Riabilitazione Residenziale o vero e proprio ricovero ospedaliero (a secondo della condizione psico-fisica del paziente). A livello di Psicoterapia, il trattamento di eccellenza è la Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT).
Talvolta può accadere che, nonostante un valido approccio multidisciplinare non invasivo, i pazienti con BED non riescano a raggiungere risultati in linea con le loro aspettative e decidano di affacciarsi al mondo della “chirurgia bariatrica”. Questo approccio chirurgico è nato nel 1954, quando fu realizzato il primo bypass digiuno-ileale della storia. Oggi esistono tecniche restrittive, con le quali si ottiene una riduzione della capienza dello stomaco e tecniche che vanno a modificare il grado di assorbimento, attraverso bypass intestinali. Entrambi i metodi comportano una significativa riduzione del peso del paziente, tuttavia non sono interventi da prendere “alla leggera”. La chirurgia bariatrica in un paziente obeso che soffre di un DCA non sempre è possibile. imagesNei casi di Bulimia Nervosa, ad esempio, non può essere effettuato. Nei pazienti con BED, invece, viene ritenuto possibile previa valutazione preoperatoria di tipo multidisciplinare mirata a valutare non solo le condizioni di salute generali, ma anche le aspettative verso i risultati ottenibili con l’intervento, il grado di disagio psicologico, la sua aderenza ad un programma psicoterapico e il margine di miglioramento del disagio stesso.

Pertanto, nei pazienti con disturbo BED è indispensabile proporre programmi terapeutici pre e post-operatori per ammetterli alla chirurgia bariatrica, affinché uno stile alimentare disturbato non perduri dopo l’intervento chirurgico, condizionandone l’esito negativamente.

Processi di crescita dell’autostima

Dalla televisione, dai giornali e dalla rete arrivano continuamente consigli per dimagrire, raggiungere un obiettivo di salute fisica e, talvolta, consigli per affrontare lo stress, le ansie, migliorare l’autostima. Tutto questo aumento della comunicazione inerente alla promozione della salute ha sicuramente sensibilizzato il pubblico nello stare più attento a quello che mangia (o se continua a mangiare come prima per lo meno è più consapevole che dovrebbe apportare qualche cambiamento), più attento all’importanza di uno stile di vita attivo e alle conseguenze della sedentarietà e, infine, più attento a come affronta i fattori stressanti o i conflitti quotidiani, cercando di riflettere di più prima di agire o migliorare la propria assertività (cioè il sapersi opporre o dire la propria opinione quando non siamo d’accordo con qualcosa che sta accadendo).

Tutto ciò va benissimo. Solo che in tutte queste informazioni c’è una pecca: non sono perfette per tutti. Ognuno ha la propria struttura fisica, la propria morfologia che ci è stata data dalla genetica e modellata dai primi 20/30 anni di vita nei quali il corpo ha un grande potenziale metabolico e risponde molto più velocemente alle stimolazioni meccaniche, attraverso il corretto esercizio fisico, e chimiche (attraverso l’introduzione di alimenti ben scelti, dosati ed abbinati). Ognuno ha la sua struttura di personalità, anch’essa modulata dal temperamento che ha basi genetiche e biologiche e dai tratti del carattere, che si sono costruiti sulla base delle relazioni affettive, delle esperienze di vita accumulate e delle risposte ottenute dall’ambiente.

autostimaQuindi i punti di partenza per migliorare la propria autostima sono: la consapevolezza di essere unico, riconoscere i propri punti di forza, osservare la nostra personalità “come se fosse un quadro”, disegnato dalle nostre mani e talmente ricco di forme e colori da esser difficilmente decifrabile, ma sicuramente non ripetibile, nemmeno da noi stessi, perché ogni esperienza fatta in diversi momenti della nostra vita può apparire diversa e così ogni segno sulla tela è unico e non va cancellato. Il quadrò ha spazi migliorabili? Ha spazi troppo bui? Ha spazi vuoti? Possiamo certamente migliorarlo, ma non con consigli generalisti. La stessa cosa vale per la forma fisica. Proviamo ad immaginare la forma fisica come un’opera musicale stavolta, essa come una composizione, dunque, muta nel tempo. Mutare è naturale, il cambiamento è segno che non ci siamo fossilizzati in un momento passato. Un corpo “immobile” è un corpo che ossessivamente insegue sé stesso, la mente sarà tutta presa nel tenere a bada ogni cambiamento, proprio come se il corpo fosse una statua e non un insieme di cellule che nascono e muoiono continuamente e quindi, si modificano e ci ricostruiscono ogni giorno. Il corpo come una composizione musicale, invece, ha momenti lenti, gravi, faticosi, momenti veloci, acuti, incalzanti. Prima lo accettiamo prima potremo cambiare serenamente il nostro stile di vita, non come un dogma derivato dai consigli ma come un bisogno. Il nostro metabolismo infatti può esser aiutato, quindi se noi ci conosciamo e ci accettiamo fisicamente, per come siamo oggi e come siamo stati in passato, possiamo iniziare a dare i giusti stimoli al nostro corpo per innalzare il metabolismo, sentire un sano appetito e non una fame nervosa, godere dei piaceri della vita senza sensi di colpa perché sappiamo che non sarà uno di questi a far cadere tutti i nostri “sforzi”. In realtà scrivere una composizione musicale è un lavoro complesso, fatto di abbinamenti, scelta di tempi, di pause… quindi non si può dire che non ci sia dietro un lavoro, tuttavia si può iniziare a provare piacere quando il benessere, che ci viene restituito dall’impegno quotidiano, supera la fatica dello sforzo che sostiene l’impegno del cambiamento.

capelliUna corsa, una camminata o esercizi più mirati possono inizialmente sembrare una fatica, ma nel tempo possono diventare quasi un bisogno, un mezzo per star meglio, un piacere. Questo vale anche per la bella sensazione che si può provare nel cucinare un piatto sano, gustoso, colorato. Sono tutti simboli dell’amore che proviamo verso noi stessi e verso le persone che ci amano, perché imparando a condurre mente e corpo come opere artistiche, dove emozioni e ragione non sono mai disgiunte, faremo anche il regalo alle persone che ci stanno attorno di aver accanto una persona sa vicariare forza ed energia, un “modello” da prendere come esempio.

L’autostima non sale con lo sforzo del pensiero, ma tramite l’armonia dei nostri comportamenti e in base al nostro sguardo sul mondo, due elementi che cambiano naturalmente se sappiamo prenderci cura di noi.

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I professionisti della salute e del benessere dovrebbero riuscire a condurre clienti e pazienti verso questa armonia. Chiedere aiuto non è un segno di debolezza ma una cura in più verso la nostra persona.

Dr.ssa Silvia Colizzi

Dormire bene? Un’esigenza per la tua salute

Il sonno è un’esigenza universale, nessuno può farne a meno, è un bisogno primario, al pari del respirare, del nutrirsi, del comunicare…

La “società dell’informazione” in cui viviamo, ha diffuso in maniera trasversale alcune “verità essenziali” sul sonno. Oggi, infatti, tutti conoscono l’importanza di un buon riposo per il mantenimento del nostro stato di salute psico-fisica. D’altro canto in pochi agiscono attivamente per migliorare la qualità del proprio sonno.

A questo fine anche in questo blog si intende diffondere un po’ di “cultura sonnologica” per piccoli o grandi disturbi, sperando di generare maggior consapevolezza sulla relazione bilaterale: sonno ↔benessere.

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COSA SUCCEDE AL NOSTRO CERVELLO ADDORMENTATO?

I cicli del sonno.

“Il sonno è uno stato prontamente reversibile di ridotta reattività e di ridotta interazione con l’ambiente.”

Il sonno non è uno stato unico bensì un processo complesso e ciclico che evolve in modo continuo mostrando una regolare successione di stadi caratterizzati da diversi schemi di attività cerebrale. Un ciclo completo dura circa 90 minuti e si ripete in sequenza da 4 a 5 volte durante una intera notte.

Ogni ciclo è caratterizzato dalla presenza di due fasi principali:

fig_1_nuove• Le fasi Non-REM, o sonno senza movimenti oculari, durante questa fasi si ha una calo dell’attività del cervello e il sonno diventa rilassante.

• La fase REM, o sonno con rapidi movimenti oculari, presenta un’attività cerebrale in estremo fermento, mentre il corpo è completamente immobile. Durante questa fase si sogna, si elaborano le informazioni acquisite durante il giorno e si consolidano i ricordi.

Per mantenere una buona qualità del sonno è fondamentale non solo riuscire a dormire un numero sufficiente di ore, ma anche non alterare la sequenza fisiologica delle fasi che lo compongono. Non tutti però dormiamo allo stesso modo. Le ore di riposo, la qualità del sonno e il passaggio da una sua fase all’altra, sono caratteristiche molto soggettive.

I fattori che influenzano il sonno possono cambiare molto in funzione dell’età, dell’attività lavorativa, dello stress e dei disturbi fisici e psicologici, dal nostro stile di vita e da vari fattori ambientali, oltre che dal nostro comportamento durante le ore diurne.

CURIOSITA’ DAL MONDO DELLA SCIENZA

Il sonno non è una semplice perdita di coscienza, ma è uno stato attivo caratterizzato da un’intensa attività elettrica e chimica del cervello. Durante il sonno, infatti, il nostro cervello continua a funzionare anche se in modo diverso rispetto a quando è sveglio. In maniera semplicistica si potrebbe dire che aiuta l’organismo a ritrovare le energie spese durante la giornata.

_ il sonno rafforza l’apprendimento e la memoria . Dormire serve a rimettere ordine nel cervello. Le ricerche hanno dimostrato che il cervello sfrutta il sonno per fare ordine e scremare quanto di inutile ha accumulato durante la giornata, consolidando quindi, in maniera indiretta, le conoscenze che si devono ricordare. Lo dimostrano gli studi compiuti dal team di ricercatori guidato dal professor Giulio Tononi, docente di psichiatria all’università del Wisconsin .

_il sonno conferisce al cervello una maggior capacità di regolare le risposte emotive. Senza sonno, i centri cerebrali che regolano le risposte emotive, reagiscono in maniera drammaticamente eccessiva alle esperienze negative. Lo rivela uno studio di brain imaging condotto da ricercatori della Harvard Medical School e dell’Università della California a Berkeley pubblicato su Current Biology .

grelina_dormire un sufficiente numero di ore contribuisce a “mantenere la linea”. Una ricerca fatta da un gruppo di ricercatori delle Università di Chicago e di Bruxelles, guidati da Karine Spiegel, ha dimostrato che la durata del sonno può influenzare il livello di due ormoni, la leptina e la grelina, che regolano il senso della fame. La leptina, prodotta dalle cellule adipose, diminuisce il senso dell’ appetito, mentre la grelina, prodotta dallo stomaco, lo aumenta. Meno si dorme, più aumenta il livello di grelina; più si dorme, più aumenta quello di leptina. In pratica, quindi, quando si perde del sonno è probabile che si mangerà di più e si tenderà a ingrassare. Un ulteriore processo biochimico regolato dal sonno è la produzione dell’ormone Gh (Growth hormon o Somatotropina). Meno ore di sonno significano, infatti, anche una ridotta produzione del l’ormone della crescita, la cui carenza può dare un senso di stanchezza. Un ipotesi empiricamente confermata, sostiene che noi potremmo tentare di compensare questo senso di spossatezza cercando in maniera eccessiva del cibo, che ci da momentaneamente l’illusione di quella forza, che senza un sonno sufficiente, non viene recuperata.

Queste sono particolarità del sonno non appartenenti al sapere comune, che però è giusto mettere in luce, perché possono fungere da stimolo ad un maggiore controllo dei propri cicli di sonno-veglia, la cui regolarità è importantissima.

In generale, dunque, dormire bene è necessario per sentirsi riposati ed efficienti di giorno, di contro, dormire poco o male può provocare malumore, svogliatezza e stanchezza, alterato senso dell’appetito, oltre che un peggioramento dello stato generale di salute.

CONSIGLI PREZIOSI…

Esistono una serie di comportamenti che se messi in atto possono favorire il sonno notturno.

I principali sono:

• Cercare di coricarsi e svegliarsi ogni giorno alla stessa ora, possibilmente anche la domenica

• Non praticare esercizio fisico a ridosso dell’ora in cui andate a dormire

• Svolgere attività rilassanti prima di andare a letto

• Evitare di riscaldare troppo la camera da letto, la temperatura ideale è tra i 18 e i 20 gradi

• Non guardare l’orologio durante la notte

• Non assumere sostanze eccitanti come caffeina, teina o nicotina nelle 6 ore prima di coricarsi

• Moderare l’uso di alcolici soprattutto prima di andare a letto

• Evitare di dormire durante il giorno o se se ne sente la necessità fare un breve “pisolino” che non superi la mezz’ora nel primo pomeriggio

• Non tenere in camera TV, computer o altri strumenti che emettono onde magnetiche

• Non rigirarsi nel letto se non si riesce a dormire, è meglio alzarsi, leggere qualcosa, fare degli esercizi di respirazione e tornare a letto dopo un po’

• Non andare a dormire con l’ansia di non riuscire ad addormentarsi

La medicina, la psicologia, le neuroscienze sono coese nella ricerca di risposte, soluzioni o semplici consigli per far si che sempre meno persone soffrano di disturbi legati al sonno e godano di un maggior benessere nella loro vita quotidiana.

Disturbi d’ansia, questi “conosciuti”. Il GAD.

GAD è l’acronimo inglese di Generalized Anxiety Disorder, che in italiano si traduce come Disturbo d’Ansia Generalizzata. L’ANSIA è uno “stato di allarme” continuo e generalizzato verso una vasta serie di stimoli esterni di cui il soggetto sopravvaluta il pericolo potenziale ed è la caratteristica di base del GAD.

Un luogo comune da sfatare è che l’ansia possieda solo un’accezione negativa. L’ansia, infatti, è radicata nella natura umana ed è funzionale alla mobilitazione di risorse necessarie per la gestione di situazione difficili per il soggetto.
Essa offre la possibilità di affrontare con successo lo stimolo che l’ha indotta. Negli animali la sua funzione è avvertire della necessità di agire in direzione di scopi biologici da raggiungere, come la sopravvivenza.

An image of girl with headacheNell’uomo moderno, la sua funzione rimane quella di preparare l’individuo a reagire a stimoli che lo metteranno alla prova, come situazioni potenzialmente pericolose, svilenti o aperte al giudizio altrui, etc.
Avrete provato tutti una certa qual dose d’ansia prima di una gara sportiva, di un esame, di un colloquio di lavoro? Bene, sappiate che sarà stata proprio questa sensazione, con il suo significato protettivo perché innato e radicato nell’evoluzione di uno dei sistemi più primitivi, che vi avrà permesso di raccogliere le risorse psico-fisiche necessarie per una buona performance.
Anche l’ansia indotta da uno sintomo somatico permette al soggetto di avere una maggiore probabilità di un esito positivo per la sopravvivenza, perché lo indurrà ad effettuare visite, esami di controllo, a modificare lo stile di vita…etc.
Quando il livello d’allerta supera una certa soglia (determinata da caratteristiche biologiche ma anche ambientali/ situazionali dell’individuo), l’ansia diviene disadattiva e determina un calo del rendimento.
In altre parole, quando l’ansia induce una riduzione della probabilità di affrontare con successo il “pericolo”, o semplicemente le “sfide” di tutti i giorni, ecco che possiamo parlare di ansia patologica.
Inoltre, per l’organismo umano vale il principio della conservazione dell’energia: livelli di attivazione bassi permettono una migliore conservazione del “sistema uomo”, si pensi all’effetto dannoso di una attivazione cronica del sistema ormonale dello stress (cortisolo) che risulta essere addirittura neurotossico.
Quindi, un organismo sano tende ad utilizzare il minimo di energia possibile per fronteggiare efficacemente i pericolo esterni ed interni. Per questo, tutto quello che abbiamo detto finora, compresa un certa dose d’ansia giornaliera, è funzionale al buon adattamento sociale di ciascuno di noi.
Tra le manifestazioni somatiche dell’ansia patologica abbiamo una sintomatologia simile a quella del panico, seppur meno intensa, meno improvvisa e che si sviluppa in maniera più graduale.
Le persone con GAD lamentano spesso dispnea, sensazione di soffocamento, palpitazioni, sudorazione o mani fredde e bagnate, bocca asciutta, nausea o disturbi addominali, vampate di calore o brividi, disfagia o “nodo alla gola”, contrazioni muscolari tensioni o dolenzia muscolare, facile affaticabilità ed irrequitezza.

Ma ancora più “curiosamente” l’ansia patologica e’ uno stato affettivo caratterizzato da particolari componenti cognitive, quali un’amplificazione peggiorativa del reale, un’attesa costante del danno e una sensazione d’impotenza. Infine, è osservabile una componente comportamentale, finalizzata alla risoluzione o allontanamento della minaccia.
La persona appare quindi in “allerta” nella maggior parte delle situazioni.
Tutti noi tendiamo a preoccuparci di cose come i problemi di salute, il denaro o la famiglia, ma le persone con il Disturbo d’Ansia Generalizzata sono estremamente preoccupate per queste e molte altre cose ancora, anche quando non vi è nessuna ragione di esserlo.Young woman covering face with hands, looking through fingers, close-up
Pensano che le cose andranno sempre male. Talvolta, anche solo affrontare la vita quotidiana diviene un qualcosa di davvero pesante e stressante.
Il GAD è un disturbo meno “evidente” del disturbo di panico: queste persone non corrono in pronto soccorso, non pensano di aver un infarto, di morire o di impazzire…tuttavia sono sempre allarmate e preoccupate e spesso vengono persino prese in giro perché ciò che dovrebbe esser assimilato ad un disturbo trattabile con psicoterapia e, se necessaria, una terapia farmacologica, viene confuso con un tratto di personalità o addirittura come una “scelta” del soggetto di esser un “uccello del malaugurio” per sé stessi e per gli altri.
Oggi, le elevate richieste che ci vengono fatte dalla società in cui viviamo non favoriscono l’acquietarsi dei sintomi ansiosi.

Ciò che è necessario fare è chiedere sempre aiuto se sentiamo di non riuscire più a gestire da soli, e senza preoccuparci troppo, le piccole incombenze della vita quotidiana!

 

Disturbi d’ansia, questi “conosciuti”. Il Panico.

Negli ultimi anni, anche al di fuori degli ambienti medici e psicologici, si parla sempre di più di Disturbi d’Ansia (DA). Questa maggior esigenza di diffondere e ricevere informazioni è legata al clima economico-sociale di una società investita da innumerevoli fattori stressanti.

Una delle manifestazioni più diffuse dell’ansia è l“attacco di panico”. Quest’ultimo è definibile come un episodio ansioso acuto, spontaneo e improvviso, che insorge generalmente senza che la persona si trovi di fronte a una situazione temuta. Sappiamo, tuttavia, che i primi attacchi insorgono in momenti stressanti della vita di un individuo e che, una volta vissuta questa esperienza spiacevole, si creeranno inevitabili associazioni tra luoghi, situazioni e persone presenti nel momento dell’attacco, comportando spesso successivi “attacchi di panico situazionali”.

Tra i sintomi somatici (corporei) più comuni, abbiamo: sensazione di fiato corto, tachicardia, tremori, sudorazione, sensazione di soffocamento, nausea e disturbi addominali (esiste anche il “panico addominale”). Tra quelli cognitivi (mentali), invece, vi sono: paura di morire, d’impazzire o di fare qualcosa d’incontrollato, la sensazione di estraneità/ distanziamento dal contesto (derealizzazione) o da sé stessi (depersonalizzazione). Queste sensazioni non si sviluppano in modo lento, ma raggiungono il picco nel giro di 10 minuti e questo, oltre alla carica e al numero dei sintomi, li differenzia dalle crisi d’ansia.

Un attacco di panico può rimanere isolato nella vita di un individuo, oppure può esser seguito da altri attacchi, in questo caso si parla di “Disturbo di Panico” (DP). Le persone con DP mostrano anche una costante ‘ansia anticipatoria’ verso la possibilità di nuovi attacchi e una significativa alterazione del funzionamento sociale.

Il DP può esser accompagnato, o meno, da “Agorafobia”, definibile come la paura di trovarsi in luoghi nei quali si teme di non poter essere visti e soccorsi in caso di attacco di panico (es. enormi piazze, etc.) o dai quali non si può facilmente scappare quando si sente arrivare la forte sintomatologia ansiosa (es. metropolitane affollate, etc.).

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La scienza sta facendo molto per scoprire le cause genetiche e ambientali del DP. Già dal 2001, si sa che ‘la fame d’aria’ dei soggetti con DP viene regolata dagli stessi meccanismi che, in condizioni normali, permettono di reagire agli stimoli di soffocamento.

Gli esperti hanno localizzato i meccanismi che rispondono in maniera eccessiva alle concentrazioni di anidride carbonica nei recettori muscarinici del midollo allungato (Battaglia e collaboratori, 2001). Esistono farmaci capaci di mettere in ‘stand-by’ questi recettori, portando i pazienti a comportarsi esattamente come farebbe una persona senza “panico”. Gli stessi ricercatori, in una ricerca del 2009, hanno anche individuato una relazione tra il Disturbo d’Ansia da Separazione (un disturbo evolutivo) e il Disturbo di Panico, dimostrando che il distacco, anche da un solo genitore, aumenta nei bambini ‘geneticamente vulnerabili’ (con aumentata sensibilità alla CO2), il rischio di sviluppare attacchi di panico in età adulta (Battaglia e collaboratori, 2009).

Per cui esperienze precoci di distacco renderebbero più vulnerabile un sistema. Questo è solo uno dei possibili scenari, ma è necessario rendersi conto che i disturbi più complessi si sviluppano sempre nel gioco interattivo tra variabili biologiche e ambientali. Ecco perché oggi, con tutto lo stress che “respiriamo”, questo e altri Disturbi d’Ansia sembrano essere così prevalenti. Cambia la società, cambia la valenza delle psicopatologie.

Siamo dunque di fronte ad un disturbo estremamente spiacevole che causa un notevole disagio a chi ne soffre. Merita una sensibilità adeguata, nonché un approccio integrato psichiatrico e psicoterapeutico, al fine non solo di calmare la sintomatologia, ma di individuare le cause sottostanti, in termini di emozioni e pensieri disfunzionali.

“Niente panico”, oggi gli specialisti possono fare tanto. Il primo passo è la condivisione, l’aprirsi e il chiedere aiuto.

Psicologia dello sport: quando si può parlare di dismorfismo corporeo.

E’ sempre bene sottolineare la distinzione che separa un tipo di esercizio fisico sano ed equilibrato, rivolto ad un’adeguata cura di sé, al mantenimento di un aspetto desiderabile ed al potenziamento della propria vitalità, da un altro modo di vivere lo sport, dove le pratiche legate all’allenamento diventano cosi totalizzanti da interferire con tutti gli altri aspetti della vita. In questa seconda ‘attitudine’ l’investimento sull’immagine è assoluto, annullando ogni consapevolezza di sé che non sia basata sull’esteriorità. In maniera più grave ci si può riferire al fanatismo per lo sport, ed al concetto di sovra-esercizio: nel tempo sono stati coniati termini nuovi come ‘negative addiction’, ‘compulsive exercise’ o ‘exercise dependance’, per descrivere un tipo di attività fisica estrema, sia in frequenza che in durata, accompagnata da un’irresistibile coazione alla prestazione e da possibili crisi di astinenza.
Sebbene il concetto di sovra-esercizio sia di difficile classificazione e misurazione, esiste oramai una quantità di dati sufficienti per affermare che, in determinate circostanze, esso è legato fortemente ad un’insoddisfazione corporea e può causare disturbi alimentari.

RIFLESSIONI

A mio avviso è utile distinguere:

1) Un “aumento di attività fisica” costituito da allenamenti mirati e obiettivi tangibili, che si manifesta come una sana e progressiva trasformazione dell’attività sportiva, che da hobby diventa un abitudine e una passione . Questo non è legato a problematiche psicologiche di base dovute ad un insoddisfazione patologica dell’immagine del proprio corpo, tantomeno ad un dismorfismo corporeo.
non parliamo di un aumento unicamente quantitativo, ma di una vera e propria compulsione! In altre parole, per parlare di problematiche psicopatologiche sottostanti all’attività fisica, occorre che la condotta sportiva sia compulsiva e alla base vi siano vere e proprie ossessioni legate al proprio corpo. In questo caso, sarebbe auspicabile un aiuto specialistico, purtroppo il soggetto -salvo casi di problematiche conseguenti legate alla salute- difficilmente cercherà un aiuto psicologico.

2) quando si parla di angoscia verso un proprio difetto fisico o una preoccupazione eccessiva verso il proprio corpo, allenarsi non da un senso di benessere, ma diviene una compulsione che non soddisfa mai fino in fondo. il soggetto cercherà sempre nuovi modi per aumentare resistenza, forza, massa, magrezza, potenza, elasticità’,…e non solo…la persona non si piacerà’ mai davvero… l’insoddisfazione fisica riflette altre insoddisfazioni più profonde.

Nelle donne è spesso associato a disturbi alimentari e negli uomini a bigoressia o dismorfofobia muscolare (conosciuta anche come vigoressia).

 

 

Tuttavia l’associazione non è così lineare:

3) tutti nutriamo una normale insoddisfazione! il 65% delle donne e piu del 50 % degli uomini nutre qualche insoddisfazione verso il proprio corpo e fare sport e’ un modo sano per migliorare. anche la chirurgia estetica in alcuni casi può essere un aiuto…
se le motivazioni e le aspettative sono realistiche, i comportamenti volti a una maggior soddisfazione estetica non sono né criticabili, né di serie b rispetto ad altri desideri…

E’ un discorso complesso, difficile da trattare in poche righe. E’ sbagliato banalizzare e saltare subito a conclusioni. Ad ogni modo ho pensato di introdurlo perché può definirsi l’unico grande “nucleo patologico dello sport”. PER IL RESTO LO SPORT RESTA SEMPRE E SOLO UNA RISORSA, UN MEZZO E UN ATTIVITÀ DA VALORIZZARE E PROMUOVERE!

Silvia C.

Le demenze. Un inquadramento Bio-Psico-Sociale.

Le demenze sono un gruppo eterogeneo e complesso di condizioni neuro-patologiche che ha cominciato a ricevere un’adeguata attenzione solo negli ultimi 25-30 anni, da quando sono state considerate in un ottica bio-psico-sociale.
  • Età media dei malati: 77,8 anni.
  • Prevalenza Sesso: 67,8% F ; 32,2% M.
  • Stato civile: 49,6% coniugati; 47,4% vedovi.
  • Oltre l’80% vive nella propria abitazione e quindi sono seguiti direttamente da familiari (caregiver) e/o badante.
  • Ore di assistenza diretta necessarie: 6 ore al giorno.
  • Ore di sorveglianza necessarie: 7 ore al giorno.
  • Presenza di badanti nelle famiglie con malato di AD: 40,9% delle famiglie (il 95,1% delle badanti sono donne, l’89% non ha un titolo professionale adeguato).
I dati dell’indagine Censis ci informano del fatto che c’è bisogno di aiuto e assistenza a 360°, di preparazione ad hoc nei professionisti della salute, di sensibilizzazione verso una conoscenza più precisa di queste patologie in modo tale da facilitarne una “diagnosi precoce”, concetto importantissimo perché legato alla presa in carico tempestiva del paziente e alla possibilità di ritardare la comparsa di importanti sintomi cognitivi, comportamentali e organici.
Oggi, le demenze possono essere considerate l’espressione emblematica dell’integrazione mente-cervello, in quanto malattie acquisite in un cervello precedentemente sano, che si esprimono attraverso il declino delle capacità intellettive, la compromissione globale delle funzioni superiori (quali il linguaggio, la capacità di astrazione, di pianificazione, etc..) e/o del movimento, a cui consegue la compromissione della vita di relazione e dove la stessa vita quotidiana diventa per il paziente difficile da affrontare, perché la persona dispone di risorse sempre più limitate per adattarsi alle richieste del suo contesto.
Dal report “I costi sociali ed economici della malattia di Alzheimer: cosa è cambiato?” (2007), apprendiamo che la condizione dei malati d’Alzheimer (la demenza più diffusa in assoluto) e dei loro familiari, appare per molti versi l’emblema delle difficoltà incontrate dal nostro sistema sanitario e socio-assistenziale nel fornire soluzioni adeguate per la presa in carico delle patologie croniche degli anziani.
Segue qualche dato, estratto dal report Censis (2007), che può diventare fonte di riflessione:
  • il 45,7% dei familiari ha denunciano cambiamenti rispetto alla propria vita professionale
  • l’85% segnala che la propria vita sociale è stata in tutto o in parte compromessa
  • il 77% vorrebbe sfuggire dalla situazione che sta vivendo
  • il 78,3% prova rabbia per la sfortuna di doversi confrontare con la malattia.
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Questi dati ci informano dell’importante prevalenza della malattia e di come le famiglie, senza poter sempre disporre di strutture specializzate sul territorio nazionale (per distanza o costi) e senza poter disporre di personale adeguatamente formato per l’assistenza e le consulenze, si trova spesso a dover trasformare la propria vita quotidiana o a ricorrere all’aiuto di una badante (proprio come se l’anziano fosse in un buono stato di salute mentale).

E’ evidente che per le demenze, come per altre condizioni patologiche complesse, sia necessaria un’azione terapeutica e di intervento non solo medico-biologica, ma anche neuropsicologica (valutazione e riabilitazione deficit cognitivi per rallentare -se possibile- il declino), psicologica con gli stessi pazienti specialmente nella fase iniziale quando sono spesso spaventati nel trovarsi in una situazione di deficit mai esperita prima, nonché con familiari per tutto il decorso della patologia per fornire supporto e anche utili indicazioni su come comportarsi, infine socio-terapeutica per evitare l’isolamento/l’emarginazione del malato o del nucleo familiare e per facilitare le misure assistenziali necessarie.

 

Tossicodipendenze…"Malessere nel benessere"

MALESSERE NEL BENESSERE

 
La ricchezza non elimina il disagio sociale, ma ne crea di nuovo”. (Miazzi 2000)
Senza dubbio le relazioni familiari sono importanti per lo sviluppo più o meno adattivo di un giovane. Il fatto di crescere in ambienti degradati e marginali, dove altri soggetti fanno uso di sostanze e/o compiono atti criminali, o dove le gravi mancanze affettive ed educative giocano un brutto tiro nella linea evolutiva del soggetto, resta un elemento centrale negli studi psicosociali sulle tossicodipendenze.
Tuttavia…la “patologia della normalità”, che si può estendere a tutti quegli atti devianti non collegabili a situazioni di marginalità o psicopatologia, pervade significativamente il tempo presente.
All’interno di questi atti vi è senza dubbio l’abuso di sostanze stimolanti ed eccitanti. I nuovi soggetti dipendenti provengono da strati medi o medio-alti, hanno nuclei familiari regolari e vivono in ambienti apparentemente privi di rischi specifici. Sono generalmente adolescenti o giovani adulti.
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CITAZIONI DAL CODICE CIVILE IN MATERIA DI FAMIGLIA ED EDUCAZIONE DELLA PROLE

 
Art. 147 Codice Civile : “ Doveri verso i figli. Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole, tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli”.
Art. 155 Codice Civile : “ Provvedimenti riguardo ai figli. Anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
Legge 8 febbraio 2006, n. 54 . Introdotto il “Diritto del minore alla bigenitorialità”.

RIFLESSIONI PROVOCATORIE

 
Se ci troviamo di fronte ad una “famiglia modello” (sia essa nucleare oppure “allargata”), la quale “rispetta” il codice civile, dove però uno dei figli ha problemi di droga o di dipendenza dall’alcool, sorgono inevitabilmente nuove domande, preoccupazioni, dubbi e incertezze.
IL MALESSERE NEL BENESSERE è UN FENOMENO PSICOSOCIALE CHE ESISTE DA DECENNI MA CHE MAI COME NELL’ERA ODIERNA SI è DIFFUSO.

Ma che cos’è questo “malessere nel benessere”?

 
Se proviamo a digitare in un motore di ricerca queste parole, troviamo nei diversi articoli delle “chiavi di lettura costanti”:
Si parla di “noia”, della perdita di interessi, della difficoltà di provare sensazioni piacevoli nella quotidianità, del bisogno di sballarsi, di  ansia da prestazione sociale, difficoltà nel creare relazioni stabili e appaganti…
Si possono ipotizzare carenze di altro tipo all’interno del contesto familiare: vuoti comunicativi,  beni materiali che sostituiscono beni affettivi , richieste eccessive e stressogene. Tuttavia, le fonti del disagio non possono esser cercate solo all’interno delle mura domestiche.

Ambiente familiare verso AMBIENTE SOCIALE

L’uso/abuso sempre più massiccio di sostanze eccitanti in strati sociali “alti”, anche da parte di giovani adulti apparentemente realizzati, è riconducibile al fenomeno di cui stiamo parlando.
droga-634x444Dunque se l’ambiente familiare non estingue la totalità dei fattori di rischio, è l’ambiente nella sua accezione più ampia (cultura, valori, mode del momento,…) ad essere incriminato oggi più che mai.

Un ambiente promotivo e permissivo è senza dubbio positivo perché aumenta le potenzialità del soggetto di sperimentare e di realizzarsi. Tuttavia in una società che vende modelli di “successo facile e veloce” e che richiede sfacciatamente efficienza e produttività molti giovani trovano nelle sostanze eccitanti il modo per alimentare l’illusione di sentirsi partecipi allo stile di vita “vincente” conforme alle richieste dalla società contemporanea.

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Per concludere…

Consapevole del fatto che i fattori causali di un comportamento disfunzionale non sono mai da considerarsi singolarmente e che in genere appartengono sia all’ambiente che alle predisposizioni individuali, ritengo che nello studio delle tossicodipendenze non ci si possa fermare all’apparente assenza di fattori di rischio all’interno di famiglie e contesti benestanti, e che non si possa disconoscere la costante “normalità” nella quale sempre più spesso si manifesta questo fenomeno.