Morbo DI PARKINSON. Tra chimica e clinica.

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Aree dopaminergiche del cervello

 

La Malattia di Parkinson è una patologia neurodegenerativa che colpisce il SNC (Sistema Nervoso Centrale) ed è caratterizzata principalmente dalla degenerazione di alcune cellule nervose situate in una zona profonda del cervello denominata “substantia nigra”. 

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Struttura molecolare della Dopamina

Queste cellule producono la dopamina, sostanza (neurotrasmettitore) che trasmette messaggi ai neuroni in altre zone del cervello e che è indispensabile per il controllo dei movimenti di tutto il corpo.

Il decorso della malattia di Parkinson incontra diverse fasi.Queste si possono riassumere nel modo che segue:

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Stimolazione Tran-Scranica TMS

–  esordio con i primi sintomi, tra i quali tremore a riposo, rigidità muscolare, bradicinesia (lentezza e povertà di movimenti), postura curva e andatura impacciata;
–  diagnosi, con visita Neurologica e Tecniche di Neuroradiologia;
–  terapia (definita anche fase di “luna di miele”, in quanto per moltissimi anni il paziente può giovare di un elevato controllo della sintomatologia con la terapia farmacologica);
–  complicazioni da Levodopa (vi sono complicazioni diverse da paziente a paziente);
–  DBS (stimolazione cerebrale profonda), intervento chirurgico che si può ritenere necessario in alcuni casi di gravi tremori);
–  declino cognitivo, le funzioni cognitive prima non inficiate, quali il linguaggio, l’attenzione e altre funzioni possono divenire deficitarie nelle fasi avanzate.

I limiti del trattamento della M. di Parkinson sono essenzialmente legati al fatto che, non esistendo ancora una cura, esso sia mirato fondamentalmente al miglioramento dei sintomi. Inoltre, il beneficio sintomatico della levodopa è temporaneo, perché vi è un processo noto come “wearing-off” che porta alla necessità di aumentare sia la dose farmacologica sia il numero di somministrazioni, per far sì che il paziente continui a beneficiare del trattamento. Altri limiti del trattamento sono legati all’eterogeneità delle complicanze che subentrano nella fase avanzata della malattia.

A tal proposito, uno studio pubblicato dal “Sidney Multicenter Study of Parkinson’s Disease” (2009), ha riportato i seguenti dati su pazienti con P. avanzato:

•l’87% dei pazienti era caduto almeno una volta;
•l’87% dei pazienti presentava declino cognitivo o demenza;
•l’81% manifestava freezing (interruzione della marcia).394249037

Cosa fare dunque nei lunghi anni di malattia, per questi pazienti. Senza dubbio sono di notevole efficacia i trattamenti non farmacologici quali:
fisioterapia;
•logopedia;
•neuropsicologia
Più specificatamente ai pazienti parkinsoniani, in aggiunta alla terapia farmacologica, viene prescritta la fisioterapia, finalizzata alla riduzione delle complicazioni secondarie alla ridotta mobilità (es. restrizioni muscolo-tendinee, osteoporosi, alterazioni cardio-respiratorie), all’ottimizzazione delle residue capacità funzionali e alla compensazione delle attività deficitarie (ri-apprendimento motorio).
Viene regolarmente prescritta anche la logopedia, la quale aiuta il paziente nel migliorare la produzione del linguaggio inficiata dal deficit motorio che coinvolge spesso anche la muscolatura bucco-facciale ed eventuali disturbi nella deglutizione (disfagia).
Viene consigliato, ma raramente “prescritto”, il trattamento neuropsicologico Esso viene spesso condotto solo all’interno dei reparti di neurologia specializzati. Sarebbe utile continuare a seguire il paziente anche al di fuori del regime di ricovero, in quanto la neuropsicologia utilizza esercizi carta-matita o computerizzati sulle funzioni deficitarie per riabilitarle e su quelle nella norma per mantenerle ed eventualmente rinforzarle, al fine che compensino le difficoltà.
La neuropsicologia sfrutta la capacità di plasticità cerebrale, cioè la possibilità di un cervello anche adulto di modificarsi a livello anatomico e funzionale sulla base di adeguate stimolazioni ambientali (nel nostro caso con esercizi cognitivi).

Alla domanda: “la malattia di Parkinson può essere modificata in qualche modo dall’attività riabilitativa?”, la letteratura scientifica oggi mostra diverse evidenze di come l’attività fisica e la stimolazione neuro-cognitiva (quella svolta senza ausilio di macchinari medicali o intervento chirurgico) svolgano una funzione neuro-protettiva sulla degenerazione dopaminergica, rallentando il decorso della patologia.

Dr.ssa Silvia Colizzi

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ALZHEIMER e neuropsicologia.

La persona nelle prime fasi della malattia sviluppa delle difficoltà nell’acquisire e utilizzare nuove informazioni. Si osservano inoltre deficit nel ragionamento o nello svolgimento di compiti complessi, difficoltà visuo-spaziali (testabili nei test di copia di disegni anche molto semplici e nel disegno dell’orologio), alterazioni nelle abilità di linguaggio correlate a difficoltà mnestiche e di recupero delle parole e, nelle fasi più avanzate, alterazioni della personalità e del comportamento, disorientamento e smarrimento del proprio sé.

Di fronte ad un atteggiamento passivo che spesso colpisce le famiglie dei pazienti, in quanto improvvisamente si trovano in casa un familiare che andrà incontro ad un declino doloroso e del quale hanno già sentito abbondantemente parlare, perché oggi l’AD è il “cancro della terza età” e credono che altro non vada fatto se non somministrare farmaci e fare controlli medici finché il paziente non dovrà esser portato in una struttura adatta.

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Alzheimer, come la beta amiloide distrugge le sinapsi. La proteina beta amiloide inizia il suo processo distruttivo aggregandosi in ammassi che alterano le comunicazioni tra le sinapsi nel cervello dei soggetti affetti da Alzheimer molto prima di formare le caratteristiche placche che si osservano post mortem.
Quello che però dice la ricerca scientifica è che se attuate già nella prima fase della malattia, certe terapie neuropsicologiche unite al counselling psicologico per i familiari, può rallentare molto il declino cognitivo e quindi il decorso della malattia.
Ad esempio, uno studio pubblicato recentemente su una rivista scientifica (Viola L.F, Nunes P.V et al, 2011) ha dimostrato l’efficacia di un programma di riabilitazione multidisciplinare specifico per le forme di Alzheimer in stadio non avanzato. Il trattamento in questione prevede sedute di riabilitazione (la riabilitazione di gruppo è favorita perché aumenta gli stimoli e le possibilità di comunicazione, ma anche la riabilitazione singola è vicariante in quanto il rapporto diadico con il terapista o il neuropsicologo può esser molto stimolante e supportivo) due volte a settimana per 12 settimane consecutive.
Il programma comprende:
  • riabilitazione cognitiva specifica,
  • training computerizzato,
  • terapia occupazionale,
  • arte terapia,
  • attività fisica,
  • psicoterapia e counseling psicologico per i familiari.
I risultati di questo studio hanno evidenziato differenze significative tra i soggetti sottoposti al trattamento multidisciplinare sopra descritto (associato alla terapia farmacologica) e i soggetti sottoposti alla sola terapia standard (trattamento farmacologico e controlli medici).

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I soggetti sottoposti alla stimolazione cognitiva hanno mantenuto complessivamente stabile il proprio livello di funzionamento cognitivo con alcuni miglioramenti sia di tipo cognitivo sia di tipo emozionale, mentre il gruppo di controllo ha riportato un globale peggioramento della performance cognitiva (soprattutto in memoria e attenzione), risultato indotto dalla natura progressiva della malattia.

Particolarmente rilevante sembra inoltre l’attività di counseling psicologico rivolta ai familiari dei pazienti; sembra infatti che l’addestramento dei caregiver sulle strategie di comportamento più idonee da applicare quotidianamente e il supporto psicologico fornito nei momenti di difficoltà, riduca loro lo stress, con un significativo miglioramento della qualità di vita propria e del propri cari.

Le demenze. Un inquadramento Bio-Psico-Sociale.

Le demenze sono un gruppo eterogeneo e complesso di condizioni neuro-patologiche che ha cominciato a ricevere un’adeguata attenzione solo negli ultimi 25-30 anni, da quando sono state considerate in un ottica bio-psico-sociale.
  • Età media dei malati: 77,8 anni.
  • Prevalenza Sesso: 67,8% F ; 32,2% M.
  • Stato civile: 49,6% coniugati; 47,4% vedovi.
  • Oltre l’80% vive nella propria abitazione e quindi sono seguiti direttamente da familiari (caregiver) e/o badante.
  • Ore di assistenza diretta necessarie: 6 ore al giorno.
  • Ore di sorveglianza necessarie: 7 ore al giorno.
  • Presenza di badanti nelle famiglie con malato di AD: 40,9% delle famiglie (il 95,1% delle badanti sono donne, l’89% non ha un titolo professionale adeguato).
I dati dell’indagine Censis ci informano del fatto che c’è bisogno di aiuto e assistenza a 360°, di preparazione ad hoc nei professionisti della salute, di sensibilizzazione verso una conoscenza più precisa di queste patologie in modo tale da facilitarne una “diagnosi precoce”, concetto importantissimo perché legato alla presa in carico tempestiva del paziente e alla possibilità di ritardare la comparsa di importanti sintomi cognitivi, comportamentali e organici.
Oggi, le demenze possono essere considerate l’espressione emblematica dell’integrazione mente-cervello, in quanto malattie acquisite in un cervello precedentemente sano, che si esprimono attraverso il declino delle capacità intellettive, la compromissione globale delle funzioni superiori (quali il linguaggio, la capacità di astrazione, di pianificazione, etc..) e/o del movimento, a cui consegue la compromissione della vita di relazione e dove la stessa vita quotidiana diventa per il paziente difficile da affrontare, perché la persona dispone di risorse sempre più limitate per adattarsi alle richieste del suo contesto.
Dal report “I costi sociali ed economici della malattia di Alzheimer: cosa è cambiato?” (2007), apprendiamo che la condizione dei malati d’Alzheimer (la demenza più diffusa in assoluto) e dei loro familiari, appare per molti versi l’emblema delle difficoltà incontrate dal nostro sistema sanitario e socio-assistenziale nel fornire soluzioni adeguate per la presa in carico delle patologie croniche degli anziani.
Segue qualche dato, estratto dal report Censis (2007), che può diventare fonte di riflessione:
  • il 45,7% dei familiari ha denunciano cambiamenti rispetto alla propria vita professionale
  • l’85% segnala che la propria vita sociale è stata in tutto o in parte compromessa
  • il 77% vorrebbe sfuggire dalla situazione che sta vivendo
  • il 78,3% prova rabbia per la sfortuna di doversi confrontare con la malattia.
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Questi dati ci informano dell’importante prevalenza della malattia e di come le famiglie, senza poter sempre disporre di strutture specializzate sul territorio nazionale (per distanza o costi) e senza poter disporre di personale adeguatamente formato per l’assistenza e le consulenze, si trova spesso a dover trasformare la propria vita quotidiana o a ricorrere all’aiuto di una badante (proprio come se l’anziano fosse in un buono stato di salute mentale).

E’ evidente che per le demenze, come per altre condizioni patologiche complesse, sia necessaria un’azione terapeutica e di intervento non solo medico-biologica, ma anche neuropsicologica (valutazione e riabilitazione deficit cognitivi per rallentare -se possibile- il declino), psicologica con gli stessi pazienti specialmente nella fase iniziale quando sono spesso spaventati nel trovarsi in una situazione di deficit mai esperita prima, nonché con familiari per tutto il decorso della patologia per fornire supporto e anche utili indicazioni su come comportarsi, infine socio-terapeutica per evitare l’isolamento/l’emarginazione del malato o del nucleo familiare e per facilitare le misure assistenziali necessarie.