Gli effetti terapeutici della Meditazione

Il termine “Meditare” deriva dal latino “Meditatio”, “Meditari” che significa “misurare con la mente”, “volgere nell’animo”, tradotto in termini più comuni : “ripensare” o “considerare qualcosa”, quindi riflettere fermandovi a lungo il pensiero, e indica una pratica che dalle antiche tradizioni orientali, dove è connotata dalla spiritualità e religiosità buddhista, taoista e induista, si è poi diffusa anche in Occidente spogliata di accezioni religiose, e finalizzata a aiutare le persone a entrare in contatto con i propri stati mentali più interni, quelli meno controllati dal pensiero logico e razionale della nostra mente conscia, con diverse finalità: comprenderli, accettarli e utilizzarli al meglio.
Allo stesso modo, la meditazione porta ad aver un migliore contatto con le sensazioni corporee, spesso non ascoltate e dimenticate, e che invece sono segnali importanti da cogliere per la nostra salute. Nella nostra società non siamo abituati a vivere a contatto con le emozioni, con le dimensioni più alte della consapevolezza, e nemmeno con una buona e sana consapevolezza del corpo.
Quindi, il motivo per cui si stanno diffondendo tanto queste pratiche (nelle diverse accezioni e finalità) è perché si sono verificati scientificamente i benefici della meditazione sul corpo e sulla mente, nonché delle pratiche psicofisiche da essa derivate, come lo yoga o il Tai Chi.
Negli ultimi anni le neuroscienze stanno prestando grande attenzione allo studio degli effetti psicofisici delle tecniche di meditazione. Sono stati prodotti più di 3000 articoli scientifici su riviste note nella comunità medico-scientifica. Questo è un bene perché sappiamo come la nostra società occidentale, impregnata ancora moltissimo del modello biomedico (quindi dalla medicina che si basa sull’evidenza), abbia bisogno di queste validazioni per portare le pratiche non convenzionali anche all’interno dei contesti di cura e non lasciarle solo nei contesti dove si lavora sul benessere o in quelli contesti ricreativi. Nonostante questo l’opinione pubblica, e anche alcuni medici, rimangono di pareri contrastanti circa l’utilizzo di queste pratiche a livello terapeutico, più per scetticismo a priori, piuttosto che per controprove scientifiche di inefficacia.

La meditazione è un processo nel quale, con una determinata postura (la più classica è quella da seduti con le gambe incrociate, le mani che eseguono determinati “MUDRA” gesti simbolico-spirituali, la schiena eretta e la mente vigile e attenta), con una grande importanza data al respiro, si porta l’attenzione verso un certo numero di variabili corporee, sensoriali e mentali. Mentre si medita possono esserci dei “MANTRA” (dal sancrito MAN : pensiero e TRA: strumento che protegge), cioè parole, suoni o frasi ripetute e finalizzate all’obiettivo della meditazione.
Vediamo brevemente due tipologie di meditazione:
Meditazioni analitiche_ Questo tipo di meditazione prevede la presenza di un oggetto – reale, filosofico o intellettuale – al quale la mente si dirige per indagarlo. Esse mirano a raggiungere una maggior consapevolezza delle reazioni del corpo e della mente agli stimoli della vita quotidiana, quindi ci si focalizza su particolari sensazioni corporee, pensieri, emozioni, ricordi o idee. Hanno come finalità il farci percepire tutti questi contenuti per quello che essi sono davvero, non fatti ma prodotti della mente, potenziando quelli positivi e utili e decondizionando quelli negativi, dannosi o inutili (sempre secondo un nostro punto di vista). Esempio meditare sulla paura, significa accettarla come stato emotivo naturale, non temerla, riconoscere gli effetti salvifici della paura quando occorre e imparare a graduare meglio gli stimoli che generano preoccupazione, da quelli che generano timore a quelli che invece possono effettivamente scatenare una paura più intensa.
Meditazioni concentrative o stabilizzanti_ Analogamente al precedente tipo di meditazione, anche questo prevede la presenza di un oggetto – che è generalmente un’immagine, un suono, il respiro, le parti del corpo etc- ma esso non viene sottoposto a nessuna riflessione psicologica o filosofica. Il fine è raggiungere uno stato di stabilizzazione, centratura e presenza. Se durante la pratica passano dei pensieri si accettano, si osservano e si lasciano andare come onde che naturalmente arrivano e perdono la loro forza.
L’azione della pratica della meditazione è riscontrabile su più piani:
· Fisico
· Emozionale
· Cognitivo

         Elementi di Mindfulness: portare l’attenzione alle piccole cose presenti
Sicuramente le variabili individuali che maggiormente giocano nel generare benefici sono: la capacità immaginativa che è diversa da persona a persona e la costanza di esercizio.
Da un punto di vista fisico, la lettura dagli anni 90 a oggi ha riportato diverse evidenze sul:
▲ Miglioramento della risposta immunitaria
▼ decremento della variabilità della frequenza cardiaca (parametro: HRV) e della pressione sanguigna con evidenti effetti benefici sul sistema cardiocircolatorio
▼ Decremento della frequenza del respiro, con un effetto calmante
Andando verso i benefici che hanno un impatto psicologico, si è verificato un:
▲ Miglioramento della coerenza EEG in particolare a livello delle onde α. Queste onde sono associate ad una situazione di calma e ad uno stato vigile ma rilassato della mente
▲ Aumento la funzionalità e flessibilità cognitiva
▲ Aumento della stabilità emotiva, quindi un comportamento caratterizzato da una minor reattività/ impulsività delle nostre risposte automatiche alle stimolazioni interne ed esterne
A livello dei neurotrasmettitori (messaggeri chimici del cervello):
▲ Diminuisce il re-uptake della Dopamina, quindi si va a potenziare il sistema della motivazione e dell’intenzionalità (persona più focalizzata)
▼ Diminuisce l’adrenalina e la noradrenalina in circolo (neurotrasmettitori rilasciati in maniera importante e sovra-fisiologica in risposta ad un severo stress fisico o psicologico), quindi regola la reattività e le risposte di attacco e fuga dandoci una maggior capacità di valutare la vera pericolosità dello stimolo.
Inibizione del GABA (Acido Gamma Amino Butirrico), migliorando di conseguenza la capacità di memoria e apprendimento, fornendo la percezione di un minor senso di fatica, potenziando le emozioni positive e favorendo la rilassatezza

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A livello del sistema ormonale:
▼ Diminuisce la produzione di CRH (corticotropina) liberata in risposta agli stress
▼ Diminuisce la produzione di cortisolo (ormone dello stress)
▲ Aumenta la produzione delle Beta-endorfine e degli oppioidi e questo da una diminuzione del senso di dolore e un aumento della facilità con la quale possiamo provare gioia ed euforia
Equilibrio e equilibri…interconnessi…
All’interno delle mie sedute, in base ai bisogni che emergono inserisco delle meditazioni e visualizzazioni guidate che generano notevoli insight e benefici.
Dr.ssa Silvia Colizzi Psicologa Clinica, perfezionata in Neuropsicologia, Psicomotricità, PNL e Coaching.
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Dormire bene? Un’esigenza per la tua salute

Il sonno è un’esigenza universale, nessuno può farne a meno, è un bisogno primario, al pari del respirare, del nutrirsi, del comunicare…

La “società dell’informazione” in cui viviamo, ha diffuso in maniera trasversale alcune “verità essenziali” sul sonno. Oggi, infatti, tutti conoscono l’importanza di un buon riposo per il mantenimento del nostro stato di salute psico-fisica. D’altro canto in pochi agiscono attivamente per migliorare la qualità del proprio sonno.

A questo fine anche in questo blog si intende diffondere un po’ di “cultura sonnologica” per piccoli o grandi disturbi, sperando di generare maggior consapevolezza sulla relazione bilaterale: sonno ↔benessere.

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COSA SUCCEDE AL NOSTRO CERVELLO ADDORMENTATO?

I cicli del sonno.

“Il sonno è uno stato prontamente reversibile di ridotta reattività e di ridotta interazione con l’ambiente.”

Il sonno non è uno stato unico bensì un processo complesso e ciclico che evolve in modo continuo mostrando una regolare successione di stadi caratterizzati da diversi schemi di attività cerebrale. Un ciclo completo dura circa 90 minuti e si ripete in sequenza da 4 a 5 volte durante una intera notte.

Ogni ciclo è caratterizzato dalla presenza di due fasi principali:

fig_1_nuove• Le fasi Non-REM, o sonno senza movimenti oculari, durante questa fasi si ha una calo dell’attività del cervello e il sonno diventa rilassante.

• La fase REM, o sonno con rapidi movimenti oculari, presenta un’attività cerebrale in estremo fermento, mentre il corpo è completamente immobile. Durante questa fase si sogna, si elaborano le informazioni acquisite durante il giorno e si consolidano i ricordi.

Per mantenere una buona qualità del sonno è fondamentale non solo riuscire a dormire un numero sufficiente di ore, ma anche non alterare la sequenza fisiologica delle fasi che lo compongono. Non tutti però dormiamo allo stesso modo. Le ore di riposo, la qualità del sonno e il passaggio da una sua fase all’altra, sono caratteristiche molto soggettive.

I fattori che influenzano il sonno possono cambiare molto in funzione dell’età, dell’attività lavorativa, dello stress e dei disturbi fisici e psicologici, dal nostro stile di vita e da vari fattori ambientali, oltre che dal nostro comportamento durante le ore diurne.

CURIOSITA’ DAL MONDO DELLA SCIENZA

Il sonno non è una semplice perdita di coscienza, ma è uno stato attivo caratterizzato da un’intensa attività elettrica e chimica del cervello. Durante il sonno, infatti, il nostro cervello continua a funzionare anche se in modo diverso rispetto a quando è sveglio. In maniera semplicistica si potrebbe dire che aiuta l’organismo a ritrovare le energie spese durante la giornata.

_ il sonno rafforza l’apprendimento e la memoria . Dormire serve a rimettere ordine nel cervello. Le ricerche hanno dimostrato che il cervello sfrutta il sonno per fare ordine e scremare quanto di inutile ha accumulato durante la giornata, consolidando quindi, in maniera indiretta, le conoscenze che si devono ricordare. Lo dimostrano gli studi compiuti dal team di ricercatori guidato dal professor Giulio Tononi, docente di psichiatria all’università del Wisconsin .

_il sonno conferisce al cervello una maggior capacità di regolare le risposte emotive. Senza sonno, i centri cerebrali che regolano le risposte emotive, reagiscono in maniera drammaticamente eccessiva alle esperienze negative. Lo rivela uno studio di brain imaging condotto da ricercatori della Harvard Medical School e dell’Università della California a Berkeley pubblicato su Current Biology .

grelina_dormire un sufficiente numero di ore contribuisce a “mantenere la linea”. Una ricerca fatta da un gruppo di ricercatori delle Università di Chicago e di Bruxelles, guidati da Karine Spiegel, ha dimostrato che la durata del sonno può influenzare il livello di due ormoni, la leptina e la grelina, che regolano il senso della fame. La leptina, prodotta dalle cellule adipose, diminuisce il senso dell’ appetito, mentre la grelina, prodotta dallo stomaco, lo aumenta. Meno si dorme, più aumenta il livello di grelina; più si dorme, più aumenta quello di leptina. In pratica, quindi, quando si perde del sonno è probabile che si mangerà di più e si tenderà a ingrassare. Un ulteriore processo biochimico regolato dal sonno è la produzione dell’ormone Gh (Growth hormon o Somatotropina). Meno ore di sonno significano, infatti, anche una ridotta produzione del l’ormone della crescita, la cui carenza può dare un senso di stanchezza. Un ipotesi empiricamente confermata, sostiene che noi potremmo tentare di compensare questo senso di spossatezza cercando in maniera eccessiva del cibo, che ci da momentaneamente l’illusione di quella forza, che senza un sonno sufficiente, non viene recuperata.

Queste sono particolarità del sonno non appartenenti al sapere comune, che però è giusto mettere in luce, perché possono fungere da stimolo ad un maggiore controllo dei propri cicli di sonno-veglia, la cui regolarità è importantissima.

In generale, dunque, dormire bene è necessario per sentirsi riposati ed efficienti di giorno, di contro, dormire poco o male può provocare malumore, svogliatezza e stanchezza, alterato senso dell’appetito, oltre che un peggioramento dello stato generale di salute.

CONSIGLI PREZIOSI…

Esistono una serie di comportamenti che se messi in atto possono favorire il sonno notturno.

I principali sono:

• Cercare di coricarsi e svegliarsi ogni giorno alla stessa ora, possibilmente anche la domenica

• Non praticare esercizio fisico a ridosso dell’ora in cui andate a dormire

• Svolgere attività rilassanti prima di andare a letto

• Evitare di riscaldare troppo la camera da letto, la temperatura ideale è tra i 18 e i 20 gradi

• Non guardare l’orologio durante la notte

• Non assumere sostanze eccitanti come caffeina, teina o nicotina nelle 6 ore prima di coricarsi

• Moderare l’uso di alcolici soprattutto prima di andare a letto

• Evitare di dormire durante il giorno o se se ne sente la necessità fare un breve “pisolino” che non superi la mezz’ora nel primo pomeriggio

• Non tenere in camera TV, computer o altri strumenti che emettono onde magnetiche

• Non rigirarsi nel letto se non si riesce a dormire, è meglio alzarsi, leggere qualcosa, fare degli esercizi di respirazione e tornare a letto dopo un po’

• Non andare a dormire con l’ansia di non riuscire ad addormentarsi

La medicina, la psicologia, le neuroscienze sono coese nella ricerca di risposte, soluzioni o semplici consigli per far si che sempre meno persone soffrano di disturbi legati al sonno e godano di un maggior benessere nella loro vita quotidiana.

Morbo DI PARKINSON. Tra chimica e clinica.

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Aree dopaminergiche del cervello

 

La Malattia di Parkinson è una patologia neurodegenerativa che colpisce il SNC (Sistema Nervoso Centrale) ed è caratterizzata principalmente dalla degenerazione di alcune cellule nervose situate in una zona profonda del cervello denominata “substantia nigra”. 

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Struttura molecolare della Dopamina

Queste cellule producono la dopamina, sostanza (neurotrasmettitore) che trasmette messaggi ai neuroni in altre zone del cervello e che è indispensabile per il controllo dei movimenti di tutto il corpo.

Il decorso della malattia di Parkinson incontra diverse fasi.Queste si possono riassumere nel modo che segue:

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Stimolazione Tran-Scranica TMS

–  esordio con i primi sintomi, tra i quali tremore a riposo, rigidità muscolare, bradicinesia (lentezza e povertà di movimenti), postura curva e andatura impacciata;
–  diagnosi, con visita Neurologica e Tecniche di Neuroradiologia;
–  terapia (definita anche fase di “luna di miele”, in quanto per moltissimi anni il paziente può giovare di un elevato controllo della sintomatologia con la terapia farmacologica);
–  complicazioni da Levodopa (vi sono complicazioni diverse da paziente a paziente);
–  DBS (stimolazione cerebrale profonda), intervento chirurgico che si può ritenere necessario in alcuni casi di gravi tremori);
–  declino cognitivo, le funzioni cognitive prima non inficiate, quali il linguaggio, l’attenzione e altre funzioni possono divenire deficitarie nelle fasi avanzate.

I limiti del trattamento della M. di Parkinson sono essenzialmente legati al fatto che, non esistendo ancora una cura, esso sia mirato fondamentalmente al miglioramento dei sintomi. Inoltre, il beneficio sintomatico della levodopa è temporaneo, perché vi è un processo noto come “wearing-off” che porta alla necessità di aumentare sia la dose farmacologica sia il numero di somministrazioni, per far sì che il paziente continui a beneficiare del trattamento. Altri limiti del trattamento sono legati all’eterogeneità delle complicanze che subentrano nella fase avanzata della malattia.

A tal proposito, uno studio pubblicato dal “Sidney Multicenter Study of Parkinson’s Disease” (2009), ha riportato i seguenti dati su pazienti con P. avanzato:

•l’87% dei pazienti era caduto almeno una volta;
•l’87% dei pazienti presentava declino cognitivo o demenza;
•l’81% manifestava freezing (interruzione della marcia).394249037

Cosa fare dunque nei lunghi anni di malattia, per questi pazienti. Senza dubbio sono di notevole efficacia i trattamenti non farmacologici quali:
fisioterapia;
•logopedia;
•neuropsicologia
Più specificatamente ai pazienti parkinsoniani, in aggiunta alla terapia farmacologica, viene prescritta la fisioterapia, finalizzata alla riduzione delle complicazioni secondarie alla ridotta mobilità (es. restrizioni muscolo-tendinee, osteoporosi, alterazioni cardio-respiratorie), all’ottimizzazione delle residue capacità funzionali e alla compensazione delle attività deficitarie (ri-apprendimento motorio).
Viene regolarmente prescritta anche la logopedia, la quale aiuta il paziente nel migliorare la produzione del linguaggio inficiata dal deficit motorio che coinvolge spesso anche la muscolatura bucco-facciale ed eventuali disturbi nella deglutizione (disfagia).
Viene consigliato, ma raramente “prescritto”, il trattamento neuropsicologico Esso viene spesso condotto solo all’interno dei reparti di neurologia specializzati. Sarebbe utile continuare a seguire il paziente anche al di fuori del regime di ricovero, in quanto la neuropsicologia utilizza esercizi carta-matita o computerizzati sulle funzioni deficitarie per riabilitarle e su quelle nella norma per mantenerle ed eventualmente rinforzarle, al fine che compensino le difficoltà.
La neuropsicologia sfrutta la capacità di plasticità cerebrale, cioè la possibilità di un cervello anche adulto di modificarsi a livello anatomico e funzionale sulla base di adeguate stimolazioni ambientali (nel nostro caso con esercizi cognitivi).

Alla domanda: “la malattia di Parkinson può essere modificata in qualche modo dall’attività riabilitativa?”, la letteratura scientifica oggi mostra diverse evidenze di come l’attività fisica e la stimolazione neuro-cognitiva (quella svolta senza ausilio di macchinari medicali o intervento chirurgico) svolgano una funzione neuro-protettiva sulla degenerazione dopaminergica, rallentando il decorso della patologia.

Dr.ssa Silvia Colizzi

ALZHEIMER e neuropsicologia.

La persona nelle prime fasi della malattia sviluppa delle difficoltà nell’acquisire e utilizzare nuove informazioni. Si osservano inoltre deficit nel ragionamento o nello svolgimento di compiti complessi, difficoltà visuo-spaziali (testabili nei test di copia di disegni anche molto semplici e nel disegno dell’orologio), alterazioni nelle abilità di linguaggio correlate a difficoltà mnestiche e di recupero delle parole e, nelle fasi più avanzate, alterazioni della personalità e del comportamento, disorientamento e smarrimento del proprio sé.

Di fronte ad un atteggiamento passivo che spesso colpisce le famiglie dei pazienti, in quanto improvvisamente si trovano in casa un familiare che andrà incontro ad un declino doloroso e del quale hanno già sentito abbondantemente parlare, perché oggi l’AD è il “cancro della terza età” e credono che altro non vada fatto se non somministrare farmaci e fare controlli medici finché il paziente non dovrà esser portato in una struttura adatta.

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Alzheimer, come la beta amiloide distrugge le sinapsi. La proteina beta amiloide inizia il suo processo distruttivo aggregandosi in ammassi che alterano le comunicazioni tra le sinapsi nel cervello dei soggetti affetti da Alzheimer molto prima di formare le caratteristiche placche che si osservano post mortem.
Quello che però dice la ricerca scientifica è che se attuate già nella prima fase della malattia, certe terapie neuropsicologiche unite al counselling psicologico per i familiari, può rallentare molto il declino cognitivo e quindi il decorso della malattia.
Ad esempio, uno studio pubblicato recentemente su una rivista scientifica (Viola L.F, Nunes P.V et al, 2011) ha dimostrato l’efficacia di un programma di riabilitazione multidisciplinare specifico per le forme di Alzheimer in stadio non avanzato. Il trattamento in questione prevede sedute di riabilitazione (la riabilitazione di gruppo è favorita perché aumenta gli stimoli e le possibilità di comunicazione, ma anche la riabilitazione singola è vicariante in quanto il rapporto diadico con il terapista o il neuropsicologo può esser molto stimolante e supportivo) due volte a settimana per 12 settimane consecutive.
Il programma comprende:
  • riabilitazione cognitiva specifica,
  • training computerizzato,
  • terapia occupazionale,
  • arte terapia,
  • attività fisica,
  • psicoterapia e counseling psicologico per i familiari.
I risultati di questo studio hanno evidenziato differenze significative tra i soggetti sottoposti al trattamento multidisciplinare sopra descritto (associato alla terapia farmacologica) e i soggetti sottoposti alla sola terapia standard (trattamento farmacologico e controlli medici).

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I soggetti sottoposti alla stimolazione cognitiva hanno mantenuto complessivamente stabile il proprio livello di funzionamento cognitivo con alcuni miglioramenti sia di tipo cognitivo sia di tipo emozionale, mentre il gruppo di controllo ha riportato un globale peggioramento della performance cognitiva (soprattutto in memoria e attenzione), risultato indotto dalla natura progressiva della malattia.

Particolarmente rilevante sembra inoltre l’attività di counseling psicologico rivolta ai familiari dei pazienti; sembra infatti che l’addestramento dei caregiver sulle strategie di comportamento più idonee da applicare quotidianamente e il supporto psicologico fornito nei momenti di difficoltà, riduca loro lo stress, con un significativo miglioramento della qualità di vita propria e del propri cari.

Neurotrasmettitori: i messaggeri chimici del cervello.

Il Neurotrasmettitore è una sostanza chimica dell’organismo che permette alle cellule nervose di trasmettere i loro messaggi. Tra i neurotrasmettitori abbiamo principalmente le seguenti molecole: l’acetilcolina, l’acido g-aminobutirrico, l’adrenalina, la dopamina, varie endorfine, diverse encefaline, la noradrenalina, la serotonina,…

principali neurotrasmettitoriOgni neurotrasmettitore agisce in determinati siti del cervello, dove ci sono i suoi recettori e si dedica a funzioni ben precise (sensibilità al dolore, contrazione muscolare, coordinazione dei movimenti, etc…).

Spazio tra i due neuroni dove avviene il rilascio e la ricaptazione del neurotrasmettitore.
SINAPSI: Spazio tra i due neuroni dove avviene il rilascio e la ricaptazione del neurotrasmettitore.

Il neurotrasmettitore viene sintetizzato da un neurone pre-sinaptico (cellula nervosa), che in seguito lo secerne a livello di una sinapsi, zona di congiunzione con una seconda cellula post-sinaptica (questa può esser un altra cellula cerebrale, oppure una cellula muscolare o ghiandolare). Il neurotrasmettitore si fissa quindi al suo specifico recettore (attraverso un sistema di tipo chiave-serratura che vede la sua compatibilità nelle possibilità di legame chimico), situato sulla membrana che circonda la seconda cellula. In questo modo provoca la reazione (per esempio contrazione nel caso di una cellula muscolare o imput di un segnale doloroso ad una cellula situata nei centri nervosi somatosensoriali).

NB: Numerosi farmaci svolgono la stessa azione di un neurotrasmettitore e vengono dette agonisti (adrenergici, colinergici,….); altri hanno l’effetto contrario e prendono il nome di antagonisti (adrenolitici, anticolinergici). Inoltre, il deficit di un dato neurotrasmettitore può essere responsabile di una patologia: questo avviene per esempio nel morbo di Parkinson, in cui si osserva un deficit di dopamina.

Dr.ssa Silvia Colizzi

Psicofisiomed di Silvia Colizzi

NEUROSCIENZE e storia dei metodi. Il Test di WADA.

Tra i primi metodi utilizzati per lo studio delle funzioni cognitive, va menzionato il Test di Wada, introdotto dai neurologi Wada e Rasmussen nel 1960.

test di wadaQuesto test nacque allo scopo di determinare la lateralizzazione del linguaggio in pazienti con epilessia parziale farmaco-resistente; questi pazienti erano candidati ad intervento chirurgico e quindi il test aveva la finalità di evitare che non venissero effettuate escissioni chirurgiche alle aree che permettevano al paziente la produzione e la comprensione del linguaggio. In seguito venne utilizzato anche prima di altre operazioni chirurgiche di tipo ablativo e inserito nelle ricerche sperimentali.

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Struttura chimica dell’amital sodico (barbiturico) C11H18N2O3

In generale si tratta di test medico che prevede l’iniezione di un sedativo (amital sodico) in carotide. L’effetto è quello di “spegnere” temporaneamente qualsiasi funzione cognitiva superiore nell’emisfero contro-laterale all’iniezione. Il fine è quello di poter valutare l’altro emisfero non anestetizzato.

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modello geometrico dell’amital sodico

Il paziente viene infatti sottoposto ad una valutazione neuropsicologica che consente di verificare la funzionalità di una determinata funzione cognitiva. Tuttavia, il Test di Wada è invasivo e comporta diversi effetti collaterali, quali cambiamenti della personalità, disinibizione comportamentale, emiplegia ed eminegligenza controlaterale (neglect).

Pertanto è stato progressivamente abbandonato dalla ricerca e limitato nella clinica a delicati interventi neurochirurgici, specialmente prima di un intervento ablativo in pazienti con grave epilessia per non intaccare le aree del linguaggio e altre aree cognitive importanti per la vita del paziente.

Dagli anni ’70, le neuroscienze si sono potute avvalere di macchine sofisticate quali la TAC – tomografia (assiale) computerizzata, la RM – Risonanza Magnetica, la fMRI – Risonanza Magnetica Funzionale e la PET – Tomografia ad Emissione di Positroni.

Con lo sviluppo della diagnostica per immagini si è resa possibile l’indagine ‘in vivo’ delle attività corticali, da quel momento non è stato più necessario incontrare, o generare un danno cerebrale al fine di poter decifrare l’architettura funzionale del cervello per scopi non clinici, ma di ricerca sperimentale.

Dr.ssa Silvia Colizzi 

Plasticità cerebrale. Prime riflessioni.

Benché il numero dei neuroni sia già definitivamente stabilito fin dalla prima infanzia, il cervello continua a presentare fino all’adolescenza un fenomeno chiamato plasticità cerebrale. La plasticità include sia processi morfologici che funzionali.

Brevemente essi possono esser così riassunti:

  • fe7b159cc1eac10e6da5037c6ad45a09rapida produzione o eliminazione di sinapsi;
  • progressiva mielinizzazione di fibre nervose;
  • variazioni della concentrazione di neurotrasmettitori (le sostanze chimiche che permettono ai neuroni di comunicare);
  • variazione del numero dei recettori (un recettore è una proteina, transmembrana o intracellulare, che si lega con un fattore specifico, definito ligando) dei differenti neurotrasmettitori.

Questi processi di plasticità neuronale sono controllati, in parte, dagli stessi neurotrasmettitori.

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Struttura chimica dell’acido glutammico

Ad esempio, variazioni nelle concentrazioni della dopamina nelle sinapsi possono modificare in più o in meno il numero dei recettori di questo neurotrasmettitore. Un ruolo particolarmente importante nei processi di sinaptogenesi svolge l’acido glutammico.

Questo neurotrasmettitore eccitatorio agendo in particolari recettori chiamati NMDA decide sul “destino” di certi neuroni e di certe connessioni neuronali.

NB. Poiché le diverse droghe, come la cocaina, l’amfetamina, l’eroina e l’alcool modificano l’azione di differenti neurotrasmettori esse alterano pertanto le normali condizioni nelle quali devono realizzarsi i suddetti processi neurobiologici. È prevedibile che l’assunzione di queste massicce e per tempi sufficientemente prolungati possa influenzare lo sviluppo neurobiologico del cervello dell’adolescente e quindi i suoi correlati funzionali: cognitivi, emotivi e comportamentali. Vedi un mio articolo sul Binge Drinking

Nel bambino la plasticità cerebrale è massima, tuttavia durante l’adolescenza vengono create numerose connessioni (sostanza bianca), mentre altre scompaiono. Questo processo di maturazione cerebrale porterà l’adolescente a raggiungere verso i 24 – 25 anni una migliore comunicazione tra lobi frontali (aree del controllo cognitivo) e aree sottocorticali (aree degli impulsi e delle emozioni). In questo periodo di ridefinizione della struttura architettonica cerebrale, qualsiasi fattore in grado di impattare con l’equilibrio biochimico, può portare ad un’alterazione nella maturazione neurobiologica e potremmo osservare delle conseguenze a lungo termine.

Durante tutto il ciclo di vita esperienze psicologicamente traumatiche agiscono sulla biochimica del cervello. Molte ricerche testimoniano alterazioni nel volume dell’ippocampo destro e/o sinistro e/o indicazioni di minore densità neuronale ippocampale in reduci di guerre (T grande), in donne soggette ad abusi sessuali (T grande), in persone sottoposte a stress psicologico protratto (t piccolo) (Bremner, 1999; Bremner et al., 1998; Bremner et al. 2003; Krystal, et al., 1998; pubblicazioni on line Trauma e cervello 1 Putnam 1994; Shuff et al., 1997; van der Kolk, et al., 1997; per una rassegna: Bremner, 2002).

Farò moltissimi altri esempi sulla plasticità cerebrale. Questo è un concetto di base sul quale tornerò molto spesso.

Dr.ssa Silvia Colizzi

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Parlare due lingue per avere un cervello più resistente.

2/10/2016
Nel mondo occidentale e nei paesi emergenti come i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) stiamo assistendo ad una rivoluzione demografica. Stime del 2012, riportate dalla United Nations Fund for Population Activities, indicano che se nel 2000 le persone con più di 60 anni erano circa 600 milioni, nel 2025 ce ne saranno un  1.2 miliardi e per il 2050 se ne stimano addirittura 2 miliardi.
Di conseguenza ci si aspetta un aumento delle patologie neurodegenerative.
Recentissimi dati emersi dalla giornata mondiale sull’Alzheimer Disease di sabato 21 settembre indicano che nel mondo oggi 38 milioni di persone sono affette da demenza e stime del 2012 della World Health Organization indicano come questo dato sia destinato a raddoppiare ogni 20 anni.
2555b-globalbrain1La ricerca neuroscientifica sta pertanto cercando di individuare quei fattori capaci di plasticità neurale, nel senso di cambiamenti strutturali al cervello e, tra questi, indagare quelli capaci di aumentarne la riserva cognitiva, costituita da tutti quei fattori ambientali ed educativi che riescono a rafforzare il cervello in  modo tale da renderlo più resistente al declino cognitivo.
E’ stato dimostrato che  alcune abilità influenzano la plasticità neurale, tra le più note abbiamo le abilità matematiche, le abilità musicali e a quelle di navigazione. Ad esempio, il famoso studio di neuroimaging di Maguire e collaboratori del 2000  ha evidenziato che i taxisti londinesi possiedano maggior materia grigia nell’ippocampo, una zona del cervello che svolge un ruolo importante nella memoria a lungo termine e nella navigazione spaziale.
Un fattore sul quale mi focalizzo in questo articolo e che sembra capace sia di plasticità cerebrale che di creare una maggior riserva cognitiva, come evidenziato dalla letteratura, è il bilinguismo.
Ad esempio, gli studi di Mechelli dl 2004 e Abutalebi del 2012  individuano, rispettivamente, come adulti bilingui possiedano maggior materia grigia nella corteccia parietale inferiore sinistra e nei lobi frontali, se comparati ai loro pari monolingui.
Infine, uno studio che sottolinea l’importanza del ruolo neuroprotettivo del bilinguismo è quello di Luk e collaboratori, del 2011, che mostra come soggetti bilingui anziani, confrontati ai loro pari monolingui, mostrino una maggior conservazione di materia bianca nei lobi frontali.
Inoltre, tra i vantaggi documentati dalla letteratura oltre ai vantaggi neuroprotettivi ci sono anche quelli cognitivi. Sappiamo che i bilingui durante la produzione incorrono in conflitti tra le lingue perché devono continuamente monitorare e quindi controllare la lingua utile in un dato momento e inibire quella non necessaria.Per risolvere questi conflitti usano delle strutture cerebrali deputati al controllo cognitivo, che è la capacità di non esser distratti da stimoli irrilevanti o in conflitto. In questo modo nel tempo sviluppano più materia grigia, ad esempio nella corteccia cingolata anteriore, un’area del cervello situata nel lobo frontale che serve per esser più veloci e accurati nel risolvere i conflitti cognitivi, come ad esempio per prender le piccole decisioni della vita di tutti i giorni.

Recenti studi mostrano che il bilinguismo sia in grado di proteggere dal declino cognitivo anche in senso patologico. Ad esempio, lo studio di Craik e collaboratori del 2009 mostra come nei bilingui i sintomi cognitivi dell’Alzheimer emergano con un ritardo di circa 4 anni rispetto ai monolingui.

Queste sono solo alcune delle evidenze scientifiche che indicano come parlare due lingue, o meglio allenarsi con una seconda lingua anche se non si è nati in un contesto o in una famiglia bilingue, possa offrire molti vantaggi, non solo da un punto di vista culturale!
Imparate e praticate una seconda lingua. Tenete sempre allenato il vostro cervello…per godere dei benefici oggi, ma anche domani!!!

 

Silvia C.

Le demenze. Un inquadramento Bio-Psico-Sociale.

Le demenze sono un gruppo eterogeneo e complesso di condizioni neuro-patologiche che ha cominciato a ricevere un’adeguata attenzione solo negli ultimi 25-30 anni, da quando sono state considerate in un ottica bio-psico-sociale.
  • Età media dei malati: 77,8 anni.
  • Prevalenza Sesso: 67,8% F ; 32,2% M.
  • Stato civile: 49,6% coniugati; 47,4% vedovi.
  • Oltre l’80% vive nella propria abitazione e quindi sono seguiti direttamente da familiari (caregiver) e/o badante.
  • Ore di assistenza diretta necessarie: 6 ore al giorno.
  • Ore di sorveglianza necessarie: 7 ore al giorno.
  • Presenza di badanti nelle famiglie con malato di AD: 40,9% delle famiglie (il 95,1% delle badanti sono donne, l’89% non ha un titolo professionale adeguato).
I dati dell’indagine Censis ci informano del fatto che c’è bisogno di aiuto e assistenza a 360°, di preparazione ad hoc nei professionisti della salute, di sensibilizzazione verso una conoscenza più precisa di queste patologie in modo tale da facilitarne una “diagnosi precoce”, concetto importantissimo perché legato alla presa in carico tempestiva del paziente e alla possibilità di ritardare la comparsa di importanti sintomi cognitivi, comportamentali e organici.
Oggi, le demenze possono essere considerate l’espressione emblematica dell’integrazione mente-cervello, in quanto malattie acquisite in un cervello precedentemente sano, che si esprimono attraverso il declino delle capacità intellettive, la compromissione globale delle funzioni superiori (quali il linguaggio, la capacità di astrazione, di pianificazione, etc..) e/o del movimento, a cui consegue la compromissione della vita di relazione e dove la stessa vita quotidiana diventa per il paziente difficile da affrontare, perché la persona dispone di risorse sempre più limitate per adattarsi alle richieste del suo contesto.
Dal report “I costi sociali ed economici della malattia di Alzheimer: cosa è cambiato?” (2007), apprendiamo che la condizione dei malati d’Alzheimer (la demenza più diffusa in assoluto) e dei loro familiari, appare per molti versi l’emblema delle difficoltà incontrate dal nostro sistema sanitario e socio-assistenziale nel fornire soluzioni adeguate per la presa in carico delle patologie croniche degli anziani.
Segue qualche dato, estratto dal report Censis (2007), che può diventare fonte di riflessione:
  • il 45,7% dei familiari ha denunciano cambiamenti rispetto alla propria vita professionale
  • l’85% segnala che la propria vita sociale è stata in tutto o in parte compromessa
  • il 77% vorrebbe sfuggire dalla situazione che sta vivendo
  • il 78,3% prova rabbia per la sfortuna di doversi confrontare con la malattia.
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Questi dati ci informano dell’importante prevalenza della malattia e di come le famiglie, senza poter sempre disporre di strutture specializzate sul territorio nazionale (per distanza o costi) e senza poter disporre di personale adeguatamente formato per l’assistenza e le consulenze, si trova spesso a dover trasformare la propria vita quotidiana o a ricorrere all’aiuto di una badante (proprio come se l’anziano fosse in un buono stato di salute mentale).

E’ evidente che per le demenze, come per altre condizioni patologiche complesse, sia necessaria un’azione terapeutica e di intervento non solo medico-biologica, ma anche neuropsicologica (valutazione e riabilitazione deficit cognitivi per rallentare -se possibile- il declino), psicologica con gli stessi pazienti specialmente nella fase iniziale quando sono spesso spaventati nel trovarsi in una situazione di deficit mai esperita prima, nonché con familiari per tutto il decorso della patologia per fornire supporto e anche utili indicazioni su come comportarsi, infine socio-terapeutica per evitare l’isolamento/l’emarginazione del malato o del nucleo familiare e per facilitare le misure assistenziali necessarie.