Categoria: BENESSERE E CERVELLO
Dormire bene? Un’esigenza per la tua salute
Il sonno è un’esigenza universale, nessuno può farne a meno, è un bisogno primario, al pari del respirare, del nutrirsi, del comunicare…
La “società dell’informazione” in cui viviamo, ha diffuso in maniera trasversale alcune “verità essenziali” sul sonno. Oggi, infatti, tutti conoscono l’importanza di un buon riposo per il mantenimento del nostro stato di salute psico-fisica. D’altro canto in pochi agiscono attivamente per migliorare la qualità del proprio sonno.
A questo fine anche in questo blog si intende diffondere un po’ di “cultura sonnologica” per piccoli o grandi disturbi, sperando di generare maggior consapevolezza sulla relazione bilaterale: sonno ↔benessere.
COSA SUCCEDE AL NOSTRO CERVELLO ADDORMENTATO?
I cicli del sonno.
“Il sonno è uno stato prontamente reversibile di ridotta reattività e di ridotta interazione con l’ambiente.”
Il sonno non è uno stato unico bensì un processo complesso e ciclico che evolve in modo continuo mostrando una regolare successione di stadi caratterizzati da diversi schemi di attività cerebrale. Un ciclo completo dura circa 90 minuti e si ripete in sequenza da 4 a 5 volte durante una intera notte.
Ogni ciclo è caratterizzato dalla presenza di due fasi principali:
• Le fasi Non-REM, o sonno senza movimenti oculari, durante questa fasi si ha una calo dell’attività del cervello e il sonno diventa rilassante.
• La fase REM, o sonno con rapidi movimenti oculari, presenta un’attività cerebrale in estremo fermento, mentre il corpo è completamente immobile. Durante questa fase si sogna, si elaborano le informazioni acquisite durante il giorno e si consolidano i ricordi.
Per mantenere una buona qualità del sonno è fondamentale non solo riuscire a dormire un numero sufficiente di ore, ma anche non alterare la sequenza fisiologica delle fasi che lo compongono. Non tutti però dormiamo allo stesso modo. Le ore di riposo, la qualità del sonno e il passaggio da una sua fase all’altra, sono caratteristiche molto soggettive.
I fattori che influenzano il sonno possono cambiare molto in funzione dell’età, dell’attività lavorativa, dello stress e dei disturbi fisici e psicologici, dal nostro stile di vita e da vari fattori ambientali, oltre che dal nostro comportamento durante le ore diurne.
CURIOSITA’ DAL MONDO DELLA SCIENZA
Il sonno non è una semplice perdita di coscienza, ma è uno stato attivo caratterizzato da un’intensa attività elettrica e chimica del cervello. Durante il sonno, infatti, il nostro cervello continua a funzionare anche se in modo diverso rispetto a quando è sveglio. In maniera semplicistica si potrebbe dire che aiuta l’organismo a ritrovare le energie spese durante la giornata.
_ il sonno rafforza l’apprendimento e la memoria . Dormire serve a rimettere ordine nel cervello. Le ricerche hanno dimostrato che il cervello sfrutta il sonno per fare ordine e scremare quanto di inutile ha accumulato durante la giornata, consolidando quindi, in maniera indiretta, le conoscenze che si devono ricordare. Lo dimostrano gli studi compiuti dal team di ricercatori guidato dal professor Giulio Tononi, docente di psichiatria all’università del Wisconsin .
_il sonno conferisce al cervello una maggior capacità di regolare le risposte emotive. Senza sonno, i centri cerebrali che regolano le risposte emotive, reagiscono in maniera drammaticamente eccessiva alle esperienze negative. Lo rivela uno studio di brain imaging condotto da ricercatori della Harvard Medical School e dell’Università della California a Berkeley pubblicato su Current Biology .
_dormire un sufficiente numero di ore contribuisce a “mantenere la linea”. Una ricerca fatta da un gruppo di ricercatori delle Università di Chicago e di Bruxelles, guidati da Karine Spiegel, ha dimostrato che la durata del sonno può influenzare il livello di due ormoni, la leptina e la grelina, che regolano il senso della fame. La leptina, prodotta dalle cellule adipose, diminuisce il senso dell’ appetito, mentre la grelina, prodotta dallo stomaco, lo aumenta. Meno si dorme, più aumenta il livello di grelina; più si dorme, più aumenta quello di leptina. In pratica, quindi, quando si perde del sonno è probabile che si mangerà di più e si tenderà a ingrassare. Un ulteriore processo biochimico regolato dal sonno è la produzione dell’ormone Gh (Growth hormon o Somatotropina). Meno ore di sonno significano, infatti, anche una ridotta produzione del l’ormone della crescita, la cui carenza può dare un senso di stanchezza. Un ipotesi empiricamente confermata, sostiene che noi potremmo tentare di compensare questo senso di spossatezza cercando in maniera eccessiva del cibo, che ci da momentaneamente l’illusione di quella forza, che senza un sonno sufficiente, non viene recuperata.
Queste sono particolarità del sonno non appartenenti al sapere comune, che però è giusto mettere in luce, perché possono fungere da stimolo ad un maggiore controllo dei propri cicli di sonno-veglia, la cui regolarità è importantissima.
In generale, dunque, dormire bene è necessario per sentirsi riposati ed efficienti di giorno, di contro, dormire poco o male può provocare malumore, svogliatezza e stanchezza, alterato senso dell’appetito, oltre che un peggioramento dello stato generale di salute.
CONSIGLI PREZIOSI…
Esistono una serie di comportamenti che se messi in atto possono favorire il sonno notturno.
I principali sono:
• Cercare di coricarsi e svegliarsi ogni giorno alla stessa ora, possibilmente anche la domenica
• Non praticare esercizio fisico a ridosso dell’ora in cui andate a dormire
• Svolgere attività rilassanti prima di andare a letto
• Evitare di riscaldare troppo la camera da letto, la temperatura ideale è tra i 18 e i 20 gradi
• Non guardare l’orologio durante la notte
• Non assumere sostanze eccitanti come caffeina, teina o nicotina nelle 6 ore prima di coricarsi
• Moderare l’uso di alcolici soprattutto prima di andare a letto
• Evitare di dormire durante il giorno o se se ne sente la necessità fare un breve “pisolino” che non superi la mezz’ora nel primo pomeriggio
• Non tenere in camera TV, computer o altri strumenti che emettono onde magnetiche
• Non rigirarsi nel letto se non si riesce a dormire, è meglio alzarsi, leggere qualcosa, fare degli esercizi di respirazione e tornare a letto dopo un po’
• Non andare a dormire con l’ansia di non riuscire ad addormentarsi
La medicina, la psicologia, le neuroscienze sono coese nella ricerca di risposte, soluzioni o semplici consigli per far si che sempre meno persone soffrano di disturbi legati al sonno e godano di un maggior benessere nella loro vita quotidiana.
Morbo DI PARKINSON. Tra chimica e clinica.

La Malattia di Parkinson è una patologia neurodegenerativa che colpisce il SNC (Sistema Nervoso Centrale) ed è caratterizzata principalmente dalla degenerazione di alcune cellule nervose situate in una zona profonda del cervello denominata “substantia nigra”.

Queste cellule producono la dopamina, sostanza (neurotrasmettitore) che trasmette messaggi ai neuroni in altre zone del cervello e che è indispensabile per il controllo dei movimenti di tutto il corpo.
Il decorso della malattia di Parkinson incontra diverse fasi.Queste si possono riassumere nel modo che segue:

– esordio con i primi sintomi, tra i quali tremore a riposo, rigidità muscolare, bradicinesia (lentezza e povertà di movimenti), postura curva e andatura impacciata;
– diagnosi, con visita Neurologica e Tecniche di Neuroradiologia;
– terapia (definita anche fase di “luna di miele”, in quanto per moltissimi anni il paziente può giovare di un elevato controllo della sintomatologia con la terapia farmacologica);
– complicazioni da Levodopa (vi sono complicazioni diverse da paziente a paziente);
– DBS (stimolazione cerebrale profonda), intervento chirurgico che si può ritenere necessario in alcuni casi di gravi tremori);
– declino cognitivo, le funzioni cognitive prima non inficiate, quali il linguaggio, l’attenzione e altre funzioni possono divenire deficitarie nelle fasi avanzate.
I limiti del trattamento della M. di Parkinson sono essenzialmente legati al fatto che, non esistendo ancora una cura, esso sia mirato fondamentalmente al miglioramento dei sintomi. Inoltre, il beneficio sintomatico della levodopa è temporaneo, perché vi è un processo noto come “wearing-off” che porta alla necessità di aumentare sia la dose farmacologica sia il numero di somministrazioni, per far sì che il paziente continui a beneficiare del trattamento. Altri limiti del trattamento sono legati all’eterogeneità delle complicanze che subentrano nella fase avanzata della malattia.
A tal proposito, uno studio pubblicato dal “Sidney Multicenter Study of Parkinson’s Disease” (2009), ha riportato i seguenti dati su pazienti con P. avanzato:
•l’87% dei pazienti era caduto almeno una volta;
•l’87% dei pazienti presentava declino cognitivo o demenza;
•l’81% manifestava freezing (interruzione della marcia).
Cosa fare dunque nei lunghi anni di malattia, per questi pazienti. Senza dubbio sono di notevole efficacia i trattamenti non farmacologici quali:
•fisioterapia;
•logopedia;
•neuropsicologia
Più specificatamente ai pazienti parkinsoniani, in aggiunta alla terapia farmacologica, viene prescritta la fisioterapia, finalizzata alla riduzione delle complicazioni secondarie alla ridotta mobilità (es. restrizioni muscolo-tendinee, osteoporosi, alterazioni cardio-respiratorie), all’ottimizzazione delle residue capacità funzionali e alla compensazione delle attività deficitarie (ri-apprendimento motorio).
Viene regolarmente prescritta anche la logopedia, la quale aiuta il paziente nel migliorare la produzione del linguaggio inficiata dal deficit motorio che coinvolge spesso anche la muscolatura bucco-facciale ed eventuali disturbi nella deglutizione (disfagia).
Viene consigliato, ma raramente “prescritto”, il trattamento neuropsicologico Esso viene spesso condotto solo all’interno dei reparti di neurologia specializzati. Sarebbe utile continuare a seguire il paziente anche al di fuori del regime di ricovero, in quanto la neuropsicologia utilizza esercizi carta-matita o computerizzati sulle funzioni deficitarie per riabilitarle e su quelle nella norma per mantenerle ed eventualmente rinforzarle, al fine che compensino le difficoltà.
La neuropsicologia sfrutta la capacità di plasticità cerebrale, cioè la possibilità di un cervello anche adulto di modificarsi a livello anatomico e funzionale sulla base di adeguate stimolazioni ambientali (nel nostro caso con esercizi cognitivi).
Alla domanda: “la malattia di Parkinson può essere modificata in qualche modo dall’attività riabilitativa?”, la letteratura scientifica oggi mostra diverse evidenze di come l’attività fisica e la stimolazione neuro-cognitiva (quella svolta senza ausilio di macchinari medicali o intervento chirurgico) svolgano una funzione neuro-protettiva sulla degenerazione dopaminergica, rallentando il decorso della patologia.
ALZHEIMER e neuropsicologia.
Di fronte ad un atteggiamento passivo che spesso colpisce le famiglie dei pazienti, in quanto improvvisamente si trovano in casa un familiare che andrà incontro ad un declino doloroso e del quale hanno già sentito abbondantemente parlare, perché oggi l’AD è il “cancro della terza età” e credono che altro non vada fatto se non somministrare farmaci e fare controlli medici finché il paziente non dovrà esser portato in una struttura adatta.

- riabilitazione cognitiva specifica,
- training computerizzato,
- terapia occupazionale,
- arte terapia,
- attività fisica,
- psicoterapia e counseling psicologico per i familiari.
I soggetti sottoposti alla stimolazione cognitiva hanno mantenuto complessivamente stabile il proprio livello di funzionamento cognitivo con alcuni miglioramenti sia di tipo cognitivo sia di tipo emozionale, mentre il gruppo di controllo ha riportato un globale peggioramento della performance cognitiva (soprattutto in memoria e attenzione), risultato indotto dalla natura progressiva della malattia.
Neurotrasmettitori: i messaggeri chimici del cervello.
Il Neurotrasmettitore è una sostanza chimica dell’organismo che permette alle cellule nervose di trasmettere i loro messaggi. Tra i neurotrasmettitori abbiamo principalmente le seguenti molecole: l’acetilcolina, l’acido g-aminobutirrico, l’adrenalina, la dopamina, varie endorfine, diverse encefaline, la noradrenalina, la serotonina,…
Ogni neurotrasmettitore agisce in determinati siti del cervello, dove ci sono i suoi recettori e si dedica a funzioni ben precise (sensibilità al dolore, contrazione muscolare, coordinazione dei movimenti, etc…).

Il neurotrasmettitore viene sintetizzato da un neurone pre-sinaptico (cellula nervosa), che in seguito lo secerne a livello di una sinapsi, zona di congiunzione con una seconda cellula post-sinaptica (questa può esser un altra cellula cerebrale, oppure una cellula muscolare o ghiandolare). Il neurotrasmettitore si fissa quindi al suo specifico recettore (attraverso un sistema di tipo chiave-serratura che vede la sua compatibilità nelle possibilità di legame chimico), situato sulla membrana che circonda la seconda cellula. In questo modo provoca la reazione (per esempio contrazione nel caso di una cellula muscolare o imput di un segnale doloroso ad una cellula situata nei centri nervosi somatosensoriali).
NB: Numerosi farmaci svolgono la stessa azione di un neurotrasmettitore e vengono dette agonisti (adrenergici, colinergici,….); altri hanno l’effetto contrario e prendono il nome di antagonisti (adrenolitici, anticolinergici). Inoltre, il deficit di un dato neurotrasmettitore può essere responsabile di una patologia: questo avviene per esempio nel morbo di Parkinson, in cui si osserva un deficit di dopamina.
NEUROSCIENZE e storia dei metodi. Il Test di WADA.
Tra i primi metodi utilizzati per lo studio delle funzioni cognitive, va menzionato il Test di Wada, introdotto dai neurologi Wada e Rasmussen nel 1960.
Questo test nacque allo scopo di determinare la lateralizzazione del linguaggio in pazienti con epilessia parziale farmaco-resistente; questi pazienti erano candidati ad intervento chirurgico e quindi il test aveva la finalità di evitare che non venissero effettuate escissioni chirurgiche alle aree che permettevano al paziente la produzione e la comprensione del linguaggio. In seguito venne utilizzato anche prima di altre operazioni chirurgiche di tipo ablativo e inserito nelle ricerche sperimentali.

In generale si tratta di test medico che prevede l’iniezione di un sedativo (amital sodico) in carotide. L’effetto è quello di “spegnere” temporaneamente qualsiasi funzione cognitiva superiore nell’emisfero contro-laterale all’iniezione. Il fine è quello di poter valutare l’altro emisfero non anestetizzato.

Il paziente viene infatti sottoposto ad una valutazione neuropsicologica che consente di verificare la funzionalità di una determinata funzione cognitiva. Tuttavia, il Test di Wada è invasivo e comporta diversi effetti collaterali, quali cambiamenti della personalità, disinibizione comportamentale, emiplegia ed eminegligenza controlaterale (neglect).
Pertanto è stato progressivamente abbandonato dalla ricerca e limitato nella clinica a delicati interventi neurochirurgici, specialmente prima di un intervento ablativo in pazienti con grave epilessia per non intaccare le aree del linguaggio e altre aree cognitive importanti per la vita del paziente.
Dagli anni ’70, le neuroscienze si sono potute avvalere di macchine sofisticate quali la TAC – tomografia (assiale) computerizzata, la RM – Risonanza Magnetica, la fMRI – Risonanza Magnetica Funzionale e la PET – Tomografia ad Emissione di Positroni.
Con lo sviluppo della diagnostica per immagini si è resa possibile l’indagine ‘in vivo’ delle attività corticali, da quel momento non è stato più necessario incontrare, o generare un danno cerebrale al fine di poter decifrare l’architettura funzionale del cervello per scopi non clinici, ma di ricerca sperimentale.
Plasticità cerebrale. Prime riflessioni.
Benché il numero dei neuroni sia già definitivamente stabilito fin dalla prima infanzia, il cervello continua a presentare fino all’adolescenza un fenomeno chiamato plasticità cerebrale. La plasticità include sia processi morfologici che funzionali.
Brevemente essi possono esser così riassunti:
rapida produzione o eliminazione di sinapsi;
- progressiva mielinizzazione di fibre nervose;
- variazioni della concentrazione di neurotrasmettitori (le sostanze chimiche che permettono ai neuroni di comunicare);
- variazione del numero dei recettori (un recettore è una proteina, transmembrana o intracellulare, che si lega con un fattore specifico, definito ligando) dei differenti neurotrasmettitori.
Questi processi di plasticità neuronale sono controllati, in parte, dagli stessi neurotrasmettitori.

Ad esempio, variazioni nelle concentrazioni della dopamina nelle sinapsi possono modificare in più o in meno il numero dei recettori di questo neurotrasmettitore. Un ruolo particolarmente importante nei processi di sinaptogenesi svolge l’acido glutammico.
Questo neurotrasmettitore eccitatorio agendo in particolari recettori chiamati NMDA decide sul “destino” di certi neuroni e di certe connessioni neuronali.
NB. Poiché le diverse droghe, come la cocaina, l’amfetamina, l’eroina e l’alcool modificano l’azione di differenti neurotrasmettori esse alterano pertanto le normali condizioni nelle quali devono realizzarsi i suddetti processi neurobiologici. È prevedibile che l’assunzione di queste massicce e per tempi sufficientemente prolungati possa influenzare lo sviluppo neurobiologico del cervello dell’adolescente e quindi i suoi correlati funzionali: cognitivi, emotivi e comportamentali. Vedi un mio articolo sul Binge Drinking
Nel bambino la plasticità cerebrale è massima, tuttavia durante l’adolescenza vengono create numerose connessioni (sostanza bianca), mentre altre scompaiono. Questo processo di maturazione cerebrale porterà l’adolescente a raggiungere verso i 24 – 25 anni una migliore comunicazione tra lobi frontali (aree del controllo cognitivo) e aree sottocorticali (aree degli impulsi e delle emozioni). In questo periodo di ridefinizione della struttura architettonica cerebrale, qualsiasi fattore in grado di impattare con l’equilibrio biochimico, può portare ad un’alterazione nella maturazione neurobiologica e potremmo osservare delle conseguenze a lungo termine.
Durante tutto il ciclo di vita esperienze psicologicamente traumatiche agiscono sulla biochimica del cervello. Molte ricerche testimoniano alterazioni nel volume dell’ippocampo destro e/o sinistro e/o indicazioni di minore densità neuronale ippocampale in reduci di guerre (T grande), in donne soggette ad abusi sessuali (T grande), in persone sottoposte a stress psicologico protratto (t piccolo) (Bremner, 1999; Bremner et al., 1998; Bremner et al. 2003; Krystal, et al., 1998; pubblicazioni on line Trauma e cervello 1 Putnam 1994; Shuff et al., 1997; van der Kolk, et al., 1997; per una rassegna: Bremner, 2002).
Farò moltissimi altri esempi sulla plasticità cerebrale. Questo è un concetto di base sul quale tornerò molto spesso.
Parlare due lingue per avere un cervello più resistente.

Recenti studi mostrano che il bilinguismo sia in grado di proteggere dal declino cognitivo anche in senso patologico. Ad esempio, lo studio di Craik e collaboratori del 2009 mostra come nei bilingui i sintomi cognitivi dell’Alzheimer emergano con un ritardo di circa 4 anni rispetto ai monolingui.
Silvia C.
Le demenze. Un inquadramento Bio-Psico-Sociale.
- Età media dei malati: 77,8 anni.
- Prevalenza Sesso: 67,8% F ; 32,2% M.
- Stato civile: 49,6% coniugati; 47,4% vedovi.
- Oltre l’80% vive nella propria abitazione e quindi sono seguiti direttamente da familiari (caregiver) e/o badante.
- Ore di assistenza diretta necessarie: 6 ore al giorno.
- Ore di sorveglianza necessarie: 7 ore al giorno.
- Presenza di badanti nelle famiglie con malato di AD: 40,9% delle famiglie (il 95,1% delle badanti sono donne, l’89% non ha un titolo professionale adeguato).
- il 45,7% dei familiari ha denunciano cambiamenti rispetto alla propria vita professionale
- l’85% segnala che la propria vita sociale è stata in tutto o in parte compromessa
- il 77% vorrebbe sfuggire dalla situazione che sta vivendo
- il 78,3% prova rabbia per la sfortuna di doversi confrontare con la malattia.

Questi dati ci informano dell’importante prevalenza della malattia e di come le famiglie, senza poter sempre disporre di strutture specializzate sul territorio nazionale (per distanza o costi) e senza poter disporre di personale adeguatamente formato per l’assistenza e le consulenze, si trova spesso a dover trasformare la propria vita quotidiana o a ricorrere all’aiuto di una badante (proprio come se l’anziano fosse in un buono stato di salute mentale).
E’ evidente che per le demenze, come per altre condizioni patologiche complesse, sia necessaria un’azione terapeutica e di intervento non solo medico-biologica, ma anche neuropsicologica (valutazione e riabilitazione deficit cognitivi per rallentare -se possibile- il declino), psicologica con gli stessi pazienti specialmente nella fase iniziale quando sono spesso spaventati nel trovarsi in una situazione di deficit mai esperita prima, nonché con familiari per tutto il decorso della patologia per fornire supporto e anche utili indicazioni su come comportarsi, infine socio-terapeutica per evitare l’isolamento/l’emarginazione del malato o del nucleo familiare e per facilitare le misure assistenziali necessarie.