Tra i primi metodi utilizzati per lo studio delle funzioni cognitive, va menzionato il Test di Wada, introdotto dai neurologi Wada e Rasmussen nel 1960.
Questo test nacque allo scopo di determinare la lateralizzazione del linguaggio in pazienti con epilessia parziale farmaco-resistente; questi pazienti erano candidati ad intervento chirurgico e quindi il test aveva la finalità di evitare che non venissero effettuate escissioni chirurgiche alle aree che permettevano al paziente la produzione e la comprensione del linguaggio. In seguito venne utilizzato anche prima di altre operazioni chirurgiche di tipo ablativo e inserito nelle ricerche sperimentali.

In generale si tratta di test medico che prevede l’iniezione di un sedativo (amital sodico) in carotide. L’effetto è quello di “spegnere” temporaneamente qualsiasi funzione cognitiva superiore nell’emisfero contro-laterale all’iniezione. Il fine è quello di poter valutare l’altro emisfero non anestetizzato.

Il paziente viene infatti sottoposto ad una valutazione neuropsicologica che consente di verificare la funzionalità di una determinata funzione cognitiva. Tuttavia, il Test di Wada è invasivo e comporta diversi effetti collaterali, quali cambiamenti della personalità, disinibizione comportamentale, emiplegia ed eminegligenza controlaterale (neglect).
Pertanto è stato progressivamente abbandonato dalla ricerca e limitato nella clinica a delicati interventi neurochirurgici, specialmente prima di un intervento ablativo in pazienti con grave epilessia per non intaccare le aree del linguaggio e altre aree cognitive importanti per la vita del paziente.
Dagli anni ’70, le neuroscienze si sono potute avvalere di macchine sofisticate quali la TAC – tomografia (assiale) computerizzata, la RM – Risonanza Magnetica, la fMRI – Risonanza Magnetica Funzionale e la PET – Tomografia ad Emissione di Positroni.
Con lo sviluppo della diagnostica per immagini si è resa possibile l’indagine ‘in vivo’ delle attività corticali, da quel momento non è stato più necessario incontrare, o generare un danno cerebrale al fine di poter decifrare l’architettura funzionale del cervello per scopi non clinici, ma di ricerca sperimentale.